17 mai 2006

Senza illusioni, l'umanità morirebbe di disperazione o di noia...

Les Dormeuses, Gustave Courbet, 1866.




Il 1960 fu un anno di particolari avvenimenti nella vita privata e pubblica di Moravia. Il suo rapporto matrimoniale con Elsa Morante entra in crisi, iniziano i viaggi all’estero e ritorna alle tematiche iniziali dei suoi romanzi, seppur con connotazioni diverse dovute al momento storico che si inizia a vivere in Italia. Passata l’epoca fascista,il neocapitalismo si pone, per Moravia, come un’altra mostruosa figura di alienante realtà. “La dolce vita” trasposta da Federico Fellini s’incastra così nel mondo moraviano portando, da una parte la voglia di credere in un risveglio sociale oltre a quello economico e dall’altra la consapevolezza di una felicità collettiva di pura illusione. Dopo la splendida parentesi “romana” (“La ciociara”, “La romana”, Racconti romani” e “Nuovi racconti romani”), Moravia torna dunque a quella sua forma di diffusa ostilità, simulata da atteggiamenti di astenìa morale, nei confronti della società borghese. “La noia” è parte di uno schema di itinerario interiore iniziata al tempo de “Gli indifferenti”, per poi concludersi con “La vita interiore”.

Ecco, questi tre romanzi rappresentano i vertici dell’ideologia dell’alienazione moraviana, con tutte le variazioni e le divagazioni che si trovano in mezzo, o ai margini.
L’indifferenza, in sintesi, è la reazione dell’eroe moraviano di fronte alla realtà, intesa non come impassibilità, ma come presa di coscienza dell’atipicità dell’essere umano di fronte ad essa. La noia ne è l’evoluzione naturale, con confini più vasti, perché non coinvolge solo la realtà, ma la storia stessa. Dino, il protagonista, per l’appunto rielabora la storia dell’umanità utilizzando la “noia” come chiave di lettura. Si è sempre sentito “annoiato” in tutta la sua esistenza, trovando il modo di rallentare i suoi studi per quel sentimento diffuso che riuscirà a spiegarsi solo con il tempo. Anche in questo caso, con la noia non si vuole intendere il concetto contrapposto al divertimento.

Moravia non afferma “io mi annoio”, sintetizzando con tale espressione la vita di chi sente di non aver nulla da fare, mentre osserva, nella totale inezia, lo scorrere lento delle lancette di un orologio. Per Dino e, naturalmente, per Moravia, il concetto di “noia” è vicino al divertimento, poiché genera distrazione, dimenticanza anche se con la particolarità degli effetti: “la noia è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà: per adoperare una metafora, la realtà, quando mi annoio, mi ha sempre fatto l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo corta, ad un dormiente, in una notte di inverno. La tira sui piedi ed ha freddo al petto, la tira sul petto ed ha freddo ai piedi; e così non riesce mai a prender sonno veramente”. In questo frammento, si concentra il succo della noia moraviana, sviluppata su piani paralleli nel romanzo, attraverso le riflessioni e l’analisi introspettiva delle reazioni di Dino e attraverso le allusioni di cui è impregnata l’architettura del romanzo.

Il linguaggio moraviano ricco di metafore, di termini di paragone introdotti con quei “come se”, “come il”, dimostra l’importanza della rievocazione delle immagini attraverso le descrizioni degli oggetti per evidenziare meglio la relazione tra l’io e le cose, tra l’io e la realtà. La noia rappresenta l’incomunicabilità. Finché si è in grado di rappresentarsi un bicchiere di cristallo come effettivamente è e si mostra in tutta la sua utilità, allora parrà di avere un qualsiasi relazione con esso, e si potrà credere alla sua esistenza, così come, in via del tutto subordinata, anche all’esistenza dell’uomo che si pone in contatto con le cose. Se il bicchiere perdesse la sua consistenza, agli occhi di chi lo guarda, avvizzendo come un fiore privato della sua fonte vitale, se il bicchiere apparisse come estraneo, in tutta la sua assurdità, allora la noia sarebbe il risultato finale, la proiezione di una mancanza di rapporti con le cose e, quindi, con la realtà nel suo complesso: “la noia, quindi, distruggeva dapprima il mio rapporto con le cose e poi le cose stesse, vanificandole e rendendole incomprensibili”.

Dino è un pittore fallito, figlio di una madre ricchissima che detesta perché simbolo supremo del potere del denaro che tutto rende possibile, in apparenza. La madre attenta amministratrice del patrimonio di famiglia, ama Dino, ma è incapace di dimostrare i suoi sentimenti interiori se non nell’unico modo che conosce, quello del possesso. Non è un conflitto generazionale che porta il trentacinquenne ad uscire dal grembo materno, nel tentativo di nascere una seconda volta. Se ne allontana, come aveva fatto il padre anni prima, alla ricerca di una presa di coscienza della realtà, alla ricerca di un rapporto autentico, privo di falsi miti, quali potevano essere in quel momento i soldi di famiglia. La sua rinuncia non è totale, rendendosi conto che della ricchezza non ci può liberare, perché parte di se stesso, come avere gli occhi azzurri o i capelli di un dato colore.
Il suo essere nevrotico si evidenzia nel rapporto con una tela bianca che non è capace di riempire di pennellate di colore: la barriera dell’incomunicabilità tra lui e la tela. Ed è così che si ritrova in un anonimo palazzo di via Margutta abitato dai personaggi più atipici. Tra questi l’anziano pittore Balestrieri che riceve continuamente giovani modelle per ritratti di nudi che Dino non potrebbe mai dipingere. L’uomo osserva quell’andirivieni di freschezza femminile, fissandosi su di una modella in particolare: Cecilia.

La ragazza dalla particolareggiata, quasi ossessiva, descrizione rientra negli stereotipi moraviani, spesso incontrati nei suoi romanzi: “Cecilia pareva sempre duplice, ossia donna e bambina nello stesso tempo; e non soltanto nel corpo ma anche nell’espressione e nei gesti. Questa duplicità trovava soprattutto espressione nel contrasto tra la parte superiore del suo corpo e quella inferiore…la maniera con la quale Cecilia si comportava nell’amore rispecchiava anch’essa il contrasto tra le sue due nature, l’una infantile e l’altra donnesca. Più volte ho riflettuto su questa maniera; io ho concluso che Cecilia non aveva sentimento e, forse, neppure vera sensualità, ma soltanto un appetito del sesso di cui lei stessa non era del tutto consapevole pur subendone l’urgenza”.

La curiosità di Dino si fa sempre più viva quando si diffonde la notizia della morte di Balestrieri, unitamente ai pettegolezzi di una vita dissoluta di erotomane che lo ha portato a spirare tra le braccia della ragazza. Così riesce a mettersi in contatto con Cecilia, indagando sulla vita del vicino di casa, sui suoi pensieri, sul suo approccio alle cose come se volesse imparare da lui la relazione autentica con il mondo. Tra Dino e Cecilia nasce una relazione sessuale quasi incomprensibile in chi legge e la ragazza sfuggente, distratta, pare soffrire di quell’apatia morale che l’uomo ravvisa nei suoi rapporti con le cose. In quel momento, anzi, Cecilia si fa cosa tra le cose, racchiudendo in sé il nocciolo della realtà stessa con cui non riesce a costruire una vera relazione. Il delirio di questa relazione è tutta in quello scambio di domande invasive di Dino e nelle risposte contrapposte di Cecilia tutte perse in una marea di “no, non so, non saprei, forse, può essere”.

Con una Cecilia trasfigurata in uno dei tanti oggetti assurdi che lo circondano il sentimento oltrepassa il limite dell’indifferenza, attraverso il sesso, trasformandosi in crudeltà. Il desiderio fisico di lei aumenta con il desiderio di maltrattarla, con una forma di sadismo che è tipica in chi non ama davvero, ma si sente moralmente superiore. Le sue intenzioni sono quelle di provocare una qualsiasi reazione diversa dalla sua apatia, per verificare in concreto la sua esistenza. Eppure Cecilia si comporta come il resto degli oggetti, sfuggendogli e tradendolo con quella manifestazione di ingenua irrealtà, riuscendo, tuttavia, a creare una breccia nell’incomunicabilità. Nel momento in cui i sentimenti di Cecilia si acquietano, senza palesarsi esteriormente, la ragazza diventa agli occhi di Dino “più reale e desiderabile”, allontanandosi dall’idea di “irreale e noioso”.Si spinge così ad approfondire la vita di Cecilia, le sue abitudini, la sua famiglia, la sua casa, in cui si muove come un corpo estraneo, come se non si rendesse davvero conto dello squallore che la circonda (terribili le descrizioni della sua casa, nonché di un padre vicino alla morte, muto di fronte alla realtà che lo circonda). Il tentativo di Dino è quello di voler “giungere a quel possesso che il rapporto amoroso” gli negava. Il denaro ed il sesso, potenti simboli di una società illusoria, creano quell’alienazione, un’irrimediabile frattura che rende impossibile la comunicazione ed i rapporti con le cose e le persone stesse.

Più Cecilia si dimostra inafferrabile ed autonoma, più Dino la desidera. Fino a quando la ragazza è stata a sua completa disposizione, il suo rapporto con lei non era autentico perché basato sulla fisicità, piuttosto che sulla reale conoscenza della sua intima essenza. Dino tenta di utilizzare entrambi i mezzi a sua disposizione per riprendere il possesso di Cecilia che si nega sempre più, la ricopre di denaro, tenta di mercificarne lo scambio amoroso, ma proprio quando tutto sembra concludersi ecco la presa di coscienza. Dino che si avvicina alla morte, non riuscendo a trovare alcuna speranza nella vita, riesce, davanti ad un albero, a vedere per la prima volta la realtà com’è e ad interagire con essa, nell’unico modo che conosce e, finalmente, ad amare davvero Cecilia.

“La realtà è la realtà”, non la si può possedere. Ed è questo l’assunto moraviano, attraverso l’itinerario solitario di svisceramento della noia, in uno dei più importanti e profondi romanzi del ‘900. “La realtà è la realtà”, si può solo contemplarla. L’individualità di Dino si è scontrata con la realtà, finendo per accettarne le naturali conseguenze. Dino non ha un approccio maturo con le cose perché non le vede nella loro utilità, nella loro concretezza.

In Camus, morto nello stesso anno della pubblicazione de “La noia”, invece, si ravvisa una possibilità di salvezza attraverso la compenetrazione profonda tra l’individuo e la natura. Moravia si ferma prima, alla contemplazione, nonostante non sia possibile rintracciare influenze dominanti, se non per gli effetti dell’esistenzialismo che dominò una generazione di intellettuali, tra cui ovviamente Sartre, usciti da due guerre con le speranze logorate dalla consapevolezza della realtà. La noia di Moravia si erge isolata, crescendo a dismisura, proporzionalmente alla consapevolezza che esiste una dimensione diversa, perfettamente naturale a cui non riesce ad avvicinarsi, avendo utilizzato fino a quel momento i mezzi sbagliati. Il suo mancato suicidio, il suo avvicinarsi alla morte, paradossalmente, fa comprendere a Dino che si può solo contemplare la realtà, non possederla. Non è una presa di posizione attiva o positiva, ma il riflesso di una rinuncia alla lotta, nell’estremizzazione di un pessimismo ormai consapevole.