All'inizio tutte le cose erano insieme poi venne la mente e le dispose in ordine
Ultimo Bacio e Romeo e Giulietta, Francesco Hayez, 1823.
Adagiare al fondo del bicchiere alcune foglie di menta, aggiungere zucchero e qualche spruzzatina di soda; poi, aiutandosi con un cucchiaio da cocktail lungo, sciogliere adagio lo zucchero avendo cura di schiacciare contemporaneamente le foglie di menta, in modo che possano rilasciare tutto il loro aroma. Mescolare l'intruglio con rhum ed abbondante succo di limone. Questo drink, apprezzato da uno dei più grandi romanzieri americani, oltre a rendere famosa la Bodeguita del Medio Bar a l'Avana, serviva ad attenuare i momenti tristi e sedare le angosce derivanti dalla sua depressione. Il "mochito", difatti, era la bevanda preferita da Ernest Hemingway durante il suo soggiorno cubano. Il "mal di vivere", mescolandosi col rhum, quasi per incanto esaltava le passioni e sollecitava il celebre scrittore a scrutare in quel vortice di pensieri e di paure da cui estrarre la sua capacità creativa. Quello di Hemingway non è l'unico caso in cui la depressione, anziché rallentare la produzione artistica, la stimola. Si dice che l'artista si distingue dai comuni mortali per la sua particolare sensibilità all'introspezione; ciò spiegherebbe perché sia - più di ogni altro - particolarmente predisposto alla melanconia ed alla depressione. Egli, a differenza degli altri, ha il vantaggio di interpretare le proprie passioni, individuare i mutamenti del proprio stato d'animo ed elaborare le emozioni traducendole in opere d'arte. L'esaltazione creatrice dimostra così di essere molto vicina alla melanconia, sorella della depressione, figlia della mania ma anche parente prossima della follia.1 Scorrendo le pagine della letteratura, le testimonianze sono praticamente infinite: "Solo e pensoso i più deserti campi vo misurando a passi tardi e lenti" Questi due versi del "Canzoniere" racchiudono il sentimento più profondo e costante della vita intima del Petrarca.2 L'impressionante frequenza della depressione presso i poeti fa pensare quasi ad un'epidemia: le lamentazioni di Saffo e di Catullo, il pessimismo leopardiano, il male oscuro di Berto e la struggente malinconia di Grazia Deledda sono solo gli esempi più eclatanti. La più antica descrizione della depressione è, indubbiamente, quella fatta da Omero nell'Iliade quando parla della disperazione di Bellerofonte: "Venne in odio agli Dei Bellerofonte: solo e consunto da tristezza errava pel campo d'Aleio l'infelice, e l'orme de'viventi fuggia."3 Ma la depressione, con il suo colorito corollario di sintomi, non è ad esclusivo appannaggio degli artisti; purtroppo la malattia colpisce una fascia ben più cospicua di popolazione. Un recente studio americano sostiene che essa insorge nel 15-25% della popolazione adulta, e pertanto rappresenta una delle patologie di più comune riscontro.4 Essa esiste probabilmente da quando l'uomo ha acquisito il ben dell'intelletto. Più difficile invece è stabilire il momento in cui la malattia viene per la prima volta clinicamente definita. Il primo a dare una descrizione clinica della depressione - o meglio della melancolia - è stato Ippocrate nel IV secolo a.C.5 Egli applica lo studio della melanconia ad un'importante teoria - definita dottrina degli umori - destinata a resistere negli " ambienti scientifici" per diversi secoli. Si tratta di una singolare e fantasiosa teoria secondo cui lo stato di benessere di un individuo dipende sostanzialmente dall'equilibrio di quattro sostanze presenti nell'organismo umano. Questi fluidi, altrimenti detti umori, sono: sangue, bile, atrabile (o bile nera) e flegma (o pitùita). Ciascuna sostanza è responsabile di un particolare temperamento: sanguineus, cholericus, phlegmaticus, melancholicus. Il tipo sanguineus deve la sua caratteristica all'incremento della quota di sangue; è pingue e gioviale, allegro e rubicondo. Il soggetto, naturalmente predisposto alla bonomia, non disdegnerà la buona tavola e risulterà particolarmente attratto dai piaceri della vita. Nel cholericus, al contrario, prevale la bile gialla: è costituzionalmente magro e segaligno, gracile ed astuto; egli, pur essendo persona gioviale ed estroversa, presenta aggressività e logorrea, un temperamento irascibile e soprattutto uno spirito polemico e competitivo. All'estremo opposto vi è il flemmatico (phlematicus): torpido ed ozioso, indifferente e lento nei movimenti, poco preciso, poco intelligente ed ancor meno ambizioso. Il melancholicus infine è pervaso dalla secrezione di atrabile, che inonda le strutture del cervello e subissa l'anima attenuando le emozioni rendendo il paziente debole, stanco ed indolente, triste e rassegnato. L'organismo in perfetta salute contiene queste sostanze in armonia tra loro. Il loro equilibrio rappresenta la crasis; qualsiasi mutamento delle proporzioni degli umori, minaccia la stabilità del corpo umano procurando così la discrasis, cioè la malattia.6 Ovviamente, ciascuna di queste complessioni tipiche, può essere temperata dal concorso degli altri umori ed a seconda delle stagioni, originando così dei quadri intermedi. La melancolia viene considerata una malattia prevalentemente autunnale poiché in questa stagione si avevano i picchi più elevati di bile nera. Il sopravvento della sostanza venefica e letale, penetrando Nei meandri più profondi della mente, sconvolge l'armonia dei corpi, modifica le proporzioni della materia procurando una insormontabile tristezza, umore cupo, insensibilità ed indolenza. Eppure tutto ciò - notano gli ippocratici, giustificando l'incompleta elaborazione della teoria - avviene senza alcuna mania né frenesia, né febbre né furore, ma semplicemente "alienatio mentis sine febre". Per questo coniano il termine di melanconia, derivandolo da due parole della loro lingua: mélaina (nera) e cholé (bile). Nomen omen, avrebbero detto più tardi i latini: il nome, cioè, contiene l'intima correlazione tra la parola ed il suo significato. E' evidente come l'eziologia della depressione, presso i medici dell'antica Grecia, appare indubitabile. Per la verità, la depressione all'epoca di Ippocrate non viene considerata come un malessere psicologico; la patologia è inquadrata nosograficamente come una vera e propria malattia organica, a cui però non risulta estranea l'influenza di Saturno. Già nel corso del IV sec. a. C. è opinione corrente che l'eccesso di atrabile conduce alla pazzia ed alle modificazioni dell'umore; tanto che Aristotele dedica il XXX libro dei "Problemata" all'argomento: una vera e propria monografia sulla bile nera.7 Polibio (Cos, ca. 210 a.C.) nei suoi scritti sulla natura dell'uomo, confermando la "dottrina degli umori", così si esprime a proposito dell'origine delle malattie: "Il corpo dell'uomo contiene del sangue, del flegma, della bile gialla e della bile nera. Ecco cosa costituisce la natura del corpo; ecco la causa della malattia o della salute. In queste condizioni vi è salute perfetta quando questi umori sono in giusta proporzione tra di loro sia dal punto di vista della qualità che della quantità e quando la loro mescolanza è perfetta. Vi è malattia quando uno di questi umori, in troppo piccola o in troppo grande quantità, si isola nel corpo invece di rimanere mescolato a tutti gli altri".8 Nel frattempo, una serie di circostanze confermano la teoria ippocratica; la più convincente si realizza proprio a proposito della depressione. Poiché per guarire il depresso era necessario liberarlo della nera sostanza vettoriale, i medici del tempo pensarono di utilizzare una sostanza medicinale dagli effetti strabilianti. Il suo utilizzo difatti, oltre a consentire - diciamo così - una sorta di diagnosi ex adiuvantibus, consentiva l'immediata espulsione di feci nerastre e maleodoranti, ovvero della ripugnante secrezione nerastra. I familiari potevano ammirare gli straordinari risultati della loro cura. Per la verità, il più delle volte, la soddisfazione dei medici non era altrettanto condivisa dagli ammalati che si ritrovavano, in seguito all'evento, sempre più smunti ed emaciati. Addirittura i più sfortunati non riuscivano a sopravvivere a lungo al trattamento. Il motivo, ancorché sconosciuto all'epoca, è facilmente comprensibile: l'umore nerastro altro non era che una devastante e violenta melena, conseguenza delle improvvise emorragie intestinali derivanti dall'utilizzo di un'erba tossica: l'elleboro, volgarmente conosciuto come "rosa di Natale". Attorno a questo fiore sorsero innumerevoli leggende. La più celebre racconta di un pastore, di nome Melampo, definito - nello stesso tempo - medico ed indovino. La sua fama ebbe inizio quando intuì che il suo gregge, pascolando in campi ricchi di elleboro, si purgava. Decise perciò di passare alla sperimentazione sull'uomo. Ottenne la guarigione dalla pazzia delle figlie di Preto, re di Argo, che ritenevano di essere state tramutate in giovenche. Fu così che la celebrità di Melampo conquistò aristocratici e facoltosi, particolarmente turbati dai disturbi derivanti dalla loro costipazione. Venne nominato, a titolo onorifico, "medico purgatore", ottenendo come compenso la fede nuziale di una principessa di Argo, una parte del regno ed una candidatura a divinità. In realtà, dosi minime di elleboro posseggono benefici effetti purgativi; ma dosi generose esaltano tutto il potenziale tossico e velenoso della pianta. Di ciò dovevano esserne a conoscenza anche i medici dell'antica Grecia, e questo giustificherebbe l'etimologia del termine. Elleboro, infatti, deriva dal greco helleborus ed è composto da due parole greche che significano letteralmente "far morire" e "nutrimento". In sostanza, la definizione della pianta equivale a "cibo mortale". Se la bile nera era responsabile della melanconia, l'incremento della bile gialla - secondo gli antichi greci - esprimeva la fisionomia clinica della mania. La relazione tra queste due condizioni era ben conosciuta nell'antichità; lo stesso Aristotele si occupò della melanconia e della mania, ritenute entrambe "disfunzioni della struttura corporale". Ma il primo a connettere le due principali variazioni dell'umore fu Areteo di Cappadocia (circa 150 d.C.): "[...] mi sembra che la melancolia sia l'inizio ed una parte della mania". Teofrasto, successore di Aristotele nella direzione del famoso Lyceum, si interessò ai problemi della psiche dedicando diverse pubblicazioni ai disturbi psichici ed uno in particolare alla melancolia. Galeno (131-202 d.C.) sottolineò che la malinconia si rende manifesta come: "paura e depressione, insoddisfazione della propria vita ed avversione nei confronti degli altri". Ammise come causa l'alterazione del cervello, intossicato dalla bile nera, e distinse la melanconia in tre tipi: corporale, cerebrale ed ipocondriaca.9 Generalmente però la patogenesi della depressione presso la medicina greco-romana è univoca: viene attribuita notevole importanza alle cause ambientali, quali una smodata assunzione di vino, perturbazioni dell'animo dovute alle intense passioni (malinconia d'amore) e ad un ciclo del sonno disturbato.
La stessa teoria degli umori, ancorché sponsorizzata dai maggiori filosofi dell'antichità, permane a lungo. Evolve sempre più nella "teoria dei quattro temperamenti". Nel XII secolo un anonimo studioso così si esprime: "Esistono quattro umori nell'uomo, che imitano i diversi elementi; aumentano ognuno in stagioni diverse, predominano ciascuno in una diversa età [...] Quando questi umori affluiscono in misura non superiore né inferiore al giusto, l'uomo prospera".10 Ciò conferma come, rispetto alle ipotesi patogenetiche della medicina antica, nell'alto medioevo non si notano sostanziali progressi circa l'eziologia della depressione. In sostanza i depressi - alla stregua dei folli e dei dementi - continuano ad essere curati con purganti, emetici, salassi ed altre terapie simili, talvolta inutili altre volte devastanti.11 Intanto, mentre la medicina "biologica" affina le proprie conoscenze - intrecciandosi di tanto in tanto con influssi astrali, pratiche esoteriche e ricerche alchemiche - la dottrina umorale viene rielaborata anche alla luce di una visione cristiana. Rappresentante emblematica di questa tendenza è santa Ildegarda di Bingen (1098-1179), badessa in Sassonia, autrice di un Liber Compositae Medicinae, teologa, mistica e visionaria, scrittrice di musica ma anche di medicina; medico che non disdegna il ricorso all'astrologia ed all'esorcismo. Per Ildegarda la melanconia (morbus melancholicus) è un fattore costitutivo del genere umano, trasmesso ereditariamente dalla colpa originaria di Adamo ed Eva; è un'epidemia (pestis) che si diffonde attraverso il seme dell'uomo e che degenera in patologia ogniqualvolta il cristiano cade in peccato.12 Un nuovo medicinale per la cura della depressione diviene popolare a partire dal XII sec. Si tratta dell'iperico, un'erba medicinale assai diffusa e volgarmente nota come "erba di San Giovanni". La sua fama procede di pari passo con la storia dei Templari, cavalieri misteriosi e leggendari del Medioevo. Ad essi si deve la scoperta che l'iperico, oltre a causticare le ustioni e le ferite da taglio, risultava utilissimo per migliorare l'umore di guerrieri feriti costretti per mesi all'immobilità.13 Spesso, per migliorare l'ansia e combattere l'insonnia, veniva associato ad altre piante calmanti quali l'angelica e la passiflora. Nel secolo successivo si segnala la testimonianza di Guglielmo da Saliceto, chirurgo insigne e popolare. Egli consiglia ai malati un trattamento con opportuno regime dietetico, svaghi e distrazioni, onde distoglierli dall'affezione psichica.14 Prescrive inoltre il cambiamento di ambiente, una moderata idroterapia e la somministrazione di bromo. Gli viene attribuito così il merito di aver sottolineato, primo tra tutti, le proprietà tranquillanti e sedative del bromuro.15 In Inghilterra il primo testo interamente dedicato ai disturbi affettivi risale al 1621 ed è intitolato: "Anatomy of Melancholy". Ne è autore Robert Burton; egli afferma che i depressi nascono da "genitori melanconici" ed attribuisce al substrato genetico l'origine della melanconia, anche se considera quali concause della malattia l'alcool, la dieta e i ritmi biologici.16 In un volume dato alle stampe nel 1671 a Francoforte, Giovanni Cratone, nativo di Breslavia, argomenta sulla eziopatogenesi della "melancholia" e concludendo con la sua "curatio hypochondriaca".17 La melanconia, secondo Cratone, si verifica quando le vene in mezzo al fegato ed al ventricolo si infiammano o quando anche le parti circostanti soffrono per una certa occlusione. Si ammassano così degli umori nocivi e funesti che, dirigendosi al cervello, provocano la malattia.18 Il disturbo ha inizio dal fegato o dalla milza, ma viene comunque trasmesso allo stomaco che soffre per la dispepsia e, non di rado, la sua apertura è danneggiata. La curatio hypochondriaca si basa quasi esclusivamente sulla dieta: sono interdetti tutti gli animali palustri come le anatre, le oche, carni di cervo ed i suini. Prima di pranzo, infine, è utile assumere delle susine o delle erbe precedentemente macerate nel vino o nell'acqua. In conclusione, molto di ciò che conosciamo oggi sui disturbi dell'umore è già stato descritto dagli antichi greci e romani poiché curiosamente, al giorno d'oggi, le teorie più significative relative alla depressione conducono ad una alterata attivazione o deficienza di alcuni neurotrasmettitori (principalmente norepinefrina e serotonina). Studi recenti hanno dimostrato che i pazienti affetti da depressione presentano frequentemente una alterazione della capacità di soppressione della cortisolemia da parte del desametasone. Ciò attribuisce un ruolo importante nel determinismo della malattia ai fattori neuroendocrini. Sono evidenti, ed in parte suggestive, le analogie con la medicina antica. Potremmo così considerare la teoria ippocratica come la prima ipotesi biochimica di una malattia mentale. L'umore, insomma, nella scienza moderna come nell'arte antica, rimane influenzato da qualche sostanza prodotta dall'organismo; ed è affascinante pensare che la prima intuizione risalga a quattro secoli prima di Cristo.
La stessa teoria degli umori, ancorché sponsorizzata dai maggiori filosofi dell'antichità, permane a lungo. Evolve sempre più nella "teoria dei quattro temperamenti". Nel XII secolo un anonimo studioso così si esprime: "Esistono quattro umori nell'uomo, che imitano i diversi elementi; aumentano ognuno in stagioni diverse, predominano ciascuno in una diversa età [...] Quando questi umori affluiscono in misura non superiore né inferiore al giusto, l'uomo prospera".10 Ciò conferma come, rispetto alle ipotesi patogenetiche della medicina antica, nell'alto medioevo non si notano sostanziali progressi circa l'eziologia della depressione. In sostanza i depressi - alla stregua dei folli e dei dementi - continuano ad essere curati con purganti, emetici, salassi ed altre terapie simili, talvolta inutili altre volte devastanti.11 Intanto, mentre la medicina "biologica" affina le proprie conoscenze - intrecciandosi di tanto in tanto con influssi astrali, pratiche esoteriche e ricerche alchemiche - la dottrina umorale viene rielaborata anche alla luce di una visione cristiana. Rappresentante emblematica di questa tendenza è santa Ildegarda di Bingen (1098-1179), badessa in Sassonia, autrice di un Liber Compositae Medicinae, teologa, mistica e visionaria, scrittrice di musica ma anche di medicina; medico che non disdegna il ricorso all'astrologia ed all'esorcismo. Per Ildegarda la melanconia (morbus melancholicus) è un fattore costitutivo del genere umano, trasmesso ereditariamente dalla colpa originaria di Adamo ed Eva; è un'epidemia (pestis) che si diffonde attraverso il seme dell'uomo e che degenera in patologia ogniqualvolta il cristiano cade in peccato.12 Un nuovo medicinale per la cura della depressione diviene popolare a partire dal XII sec. Si tratta dell'iperico, un'erba medicinale assai diffusa e volgarmente nota come "erba di San Giovanni". La sua fama procede di pari passo con la storia dei Templari, cavalieri misteriosi e leggendari del Medioevo. Ad essi si deve la scoperta che l'iperico, oltre a causticare le ustioni e le ferite da taglio, risultava utilissimo per migliorare l'umore di guerrieri feriti costretti per mesi all'immobilità.13 Spesso, per migliorare l'ansia e combattere l'insonnia, veniva associato ad altre piante calmanti quali l'angelica e la passiflora. Nel secolo successivo si segnala la testimonianza di Guglielmo da Saliceto, chirurgo insigne e popolare. Egli consiglia ai malati un trattamento con opportuno regime dietetico, svaghi e distrazioni, onde distoglierli dall'affezione psichica.14 Prescrive inoltre il cambiamento di ambiente, una moderata idroterapia e la somministrazione di bromo. Gli viene attribuito così il merito di aver sottolineato, primo tra tutti, le proprietà tranquillanti e sedative del bromuro.15 In Inghilterra il primo testo interamente dedicato ai disturbi affettivi risale al 1621 ed è intitolato: "Anatomy of Melancholy". Ne è autore Robert Burton; egli afferma che i depressi nascono da "genitori melanconici" ed attribuisce al substrato genetico l'origine della melanconia, anche se considera quali concause della malattia l'alcool, la dieta e i ritmi biologici.16 In un volume dato alle stampe nel 1671 a Francoforte, Giovanni Cratone, nativo di Breslavia, argomenta sulla eziopatogenesi della "melancholia" e concludendo con la sua "curatio hypochondriaca".17 La melanconia, secondo Cratone, si verifica quando le vene in mezzo al fegato ed al ventricolo si infiammano o quando anche le parti circostanti soffrono per una certa occlusione. Si ammassano così degli umori nocivi e funesti che, dirigendosi al cervello, provocano la malattia.18 Il disturbo ha inizio dal fegato o dalla milza, ma viene comunque trasmesso allo stomaco che soffre per la dispepsia e, non di rado, la sua apertura è danneggiata. La curatio hypochondriaca si basa quasi esclusivamente sulla dieta: sono interdetti tutti gli animali palustri come le anatre, le oche, carni di cervo ed i suini. Prima di pranzo, infine, è utile assumere delle susine o delle erbe precedentemente macerate nel vino o nell'acqua. In conclusione, molto di ciò che conosciamo oggi sui disturbi dell'umore è già stato descritto dagli antichi greci e romani poiché curiosamente, al giorno d'oggi, le teorie più significative relative alla depressione conducono ad una alterata attivazione o deficienza di alcuni neurotrasmettitori (principalmente norepinefrina e serotonina). Studi recenti hanno dimostrato che i pazienti affetti da depressione presentano frequentemente una alterazione della capacità di soppressione della cortisolemia da parte del desametasone. Ciò attribuisce un ruolo importante nel determinismo della malattia ai fattori neuroendocrini. Sono evidenti, ed in parte suggestive, le analogie con la medicina antica. Potremmo così considerare la teoria ippocratica come la prima ipotesi biochimica di una malattia mentale. L'umore, insomma, nella scienza moderna come nell'arte antica, rimane influenzato da qualche sostanza prodotta dall'organismo; ed è affascinante pensare che la prima intuizione risalga a quattro secoli prima di Cristo.
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