31 mars 2006

Beatrice, nove cieli del Paradiso.

Dulle Griet, Pieter Bruguel the Elder, 1562.


Beatrice viene da Dante definita, nel sonetto "Tanto gentile e tanto onesta pare", in un modo straordinario, cioè come una "cosa venuta / di cielo in terra a miracol mostrare". "Cosa" è il termine dell'indefinibile, e le parole di Dante indicano che Beatrice fu, insieme, una donna realmente vissuta, una creatura celeste, un riflesso dell'ansia di ascesa spirituale e di purificazione del poeta.Beatrice donna appartiene alla sfera privata della vita di Dante, alla sua giovinezza fiorentina, agli anni della maturazione umana e poetica. Anche se i riscontri storici sono scarsi, nessuno dubita che Beatrice sia realmente esistita e che sia da identificare con la Beatrice, o Bice Portinari, sposa di Simone De' Bardi, morta giovanissima l'8 giugno del 1290.



Dante, all'inizio l'amò secondo i canoni dell'amor cortese, cantando la dolcezza del suo sguardo, "che 'ntender no la può chi no la prova", la bellezza del suo volto, la grazia e la modestia dei suoi gesti.Presto, tuttavia, quell'amore acquisì un significato diverso, libero da ogni aggancio con la realtà terrena, stimolo ad una profonda introspezione umana e morale.



L'incontro con Beatrice diventa il punto di svolta della maturazione umana e poetica di Dante, la cui vita è, da quel momento "rinnovata dall'amore".Dante, infatti, racconta che il suo primo incontro con Beatrice avvenne quando entrambi avevano nove anni, numero che identifica il miracolo. Nella Vita Nuova viene delineato il cammino interiore che porta il poeta a comprendere come il fine del suo amore non sia legato a nulla di materiale, neppure al semplice saluto, elemento pur così caro all'amor cortese. Unico fine dell'amore è per il poeta cantare le lodi della sua donna: Beatrice è per Dante uomo stimolo per l'introspezione spirituale e per Dante poeta fonte di ispirazione letteraria.Al termine della Vita Nuova Dante, che ha compreso la svolta impressa dalla donna alla sua spiritualità ma è ancora incapace di trasferire nella realtà questa acquisizione dell'anima, promette di non scrivere più di lei se non quando potrà farlo in modo completamente degno.



Nella Vita Nuova Beatrice conserva sempre la sua precisa individualità storica, ma è, al tempo stesso, "figura" di Cristo, e, come Lui, incarna la rivelazione divina. Tale funzione è, tuttavia, riservata esclusivamente all'uomo Dante, e solo nella Divina Commedia potrà estendersi all'intera umanità.



L'inizio della Divina Commedia riprende il filo della narrazione dove l'opera giovanile lo aveva interrotto. La crisi spirituale e poetica in cui lo aveva gettato la morte della sua donna, fa smarrire il poeta in un intrico di falsi amori e futili scopi. La nuova e definitiva svolta nella vita del poeta si compirà sempre nel nome di Beatrice. E', infatti lei, non più donna ma solo creatura angelica, a dare inizio al processo di salvezza e di parallelo recupero della propria identità del poeta, inviando in suo soccorso Virgilio, il maestro, di bello stile come di vita, e l'"autore", il modello, la memoria, insieme personale e storica.Ma le possibilità umane, se pur eccellenti, impersonate da Virgilio, non possono condurre Dante oltre la comprensione della natura del peccato, nell'Inferno, e della necessità di redenzione, nel Purgatorio.



Nel Paradiso guida del poeta è la stessa Beatrice. Per comprendere la natura dell'amore divino è necessario un totale abbandono dell'anima: nell'oltremondo non esistono più convenzioni sociali, nè turbamenti, nè fraintendimenti, e Beatrice può assumere in pieno il suo significato. Il ruolo e la funzione della donna sono però di portata ben diversa rispetto a quelli descritti nella giovanile Vita Nuova. Nella Commedia infatti Dante rappresenta l'intera umanità, in nome della quale compie il suo viaggio, voluto da Dio. In questa nuova dimensione il miracolo che Beatrice, incarnazione della rivelazione divina, aveva rappresentato per Dante acquista un nuovo significato ed una nuova pienezza.


Il compito di Dante è quello di indicare all'intera umanità la via per giungere alla salvezza: il miracolo che era avvenuto per Dante diventa così il miracolo di tutta l'umanità. Se nella Vita Nuova Beatrice era stata "figura" di Cristo per il solo Dante, ora è rivelazione incarnata e simbolo di Cristo per l'intera umanità.La donna amata da Dante, divenuta l'ispiratrice della sua poesia è, nella Divina Commedia, maestra di verità, il tramite che permette a Dante e all'intera umanità di arrivare al Paradiso e alla contemplazione di Dio.

Bernardo di Chiaravalle


Bernardo di Chiavaralle




Bernardo di Chiaravalle

Nato a Fontainesles - Dijon nel 1091, Bernardo era il terzogenito di una ricca ed antica famiglia. Entrato a 21 anni nel monastero benedettino di Citeaux (in latino Cistercium, da cui ebbe origine il ramo cistercense della grande famiglia dei benedettini), diede inizio, tre anni dopo, alla comunità di Clairvaux. S. Bernardo divenne in breve il fulcro dell'ordine rinnovato, approvato da papa Callisto II nel 1119, ed in Italia, dove si era recato per un ciclo di predicazioni, il santo diede vita ad un gran numero di monasteri cistercensi.Chiamato ad esprimere nel concilio di Etampes del 1130 la sua opinione sulla controversia sorta per la contemporanea elezione al soglio di Pietro di Anacleto II ed Innocenzo II, prese le parti di quest'ultimo e la sua posizione fu determinante nella decisione conciliare.

Nella riflessione teologica fu un contemplativo, tenacemente avverso al razionalismo di Pietro Abelardo (1079-1142), di cui è noto, attraverso l'epistolario, lo sventurato amore per Eloisa. Bernardo fu, inoltre, iniziatore della teologia sistematica.Sostenitore attivissimo della seconda Crociata, scrittore raffinato e viaggiatore instancabile, Bernardo, alla sua morte, avvenuta nella Champagne nel 1153, aveva fondato 350 monasteri che vivevano secondo la sua interpretazione della regola benedettina.Nonostante l'importanza e l'imponenza della sua opera teologica, Bernardo, canonizzato da papa Alessandro III nel 1174, è considerato un uomo d'azione ed un mistico: la conoscenza si identifica in lui con l'amore di Dio.

Dopo aver contemplato la Candida Rosa, Dante si volge a Beatrice e le chiede di rispondere alle domande che si affollano nella sua mente, ma

Pd. XXXI, 58-60
Uno intendea, e altro mi rispuose:
credea di veder Beatrice e vidi un sene
vestito con le genti gloriose.

Beatrice è tornata al suo seggio ed accanto al poeta è rimasto S. Bernardo per guidarlo nell'ultima parte del viaggio ultraterreno.

La scelta di affidare a S. Bernardo tale funzione di guida ha molteplici motivazioni: la guida di Dante doveva essere senz'altro un contemplativo, ma altri aspetti del temperamento del santo influenzarono in modo determinante la scelta di Dante.Bernardo fu un grande mistico, che non spregiò tuttavia l'azione, ed un devoto di Maria, "umile ed alta più che creatura" (Pd. XXXIII, 2), che pose al centro della sua incessante meditazione sull'umiltà. Senza l'intercessione di Maria, infatti, Dante non può sperare di accedere alla visione di Dio, poichè "qual vuol grazia e a te non ricorre, / sua disianza vuol volar sanz'ali" (Pd. XXXIII, 14-15). Bernardo era inoltre un'oratore finissimo, tanto da meritare, fra i Dottori della Chiesa, il titolo di Doctor Mellifluus.

Con Bernardo, dunque, il processo di ascesi spirituale di Dante si conclude là dove era iniziato il traviamento: la superbia intellettuale, che aveva causato lo smarrimento nella "selva oscura", ora è redenta dal corretto utilizzo della ragione e dell'eloquenza testimoniato dal santo di Chiaravalle.

Virgilio, La Divina Commedia, Inferno.


Martyrdom of St Erasmus, Dieric Bouts the Elder, 1458.




Virgilio è la guida di Dante nel viaggio attraverso i nove cerchi infernali e nell'ascesa al monte del Purgatorio. Dalla settima Cornice del Purgatorio ai due poeti si affianca Stazio, che ha completato il cammino di purgazione e si accinge ad ascendere al Paradiso. Giunti nel Paradiso Terrestre, Virgilio saluta Dante e si appresta a tornare nel Limbo. Beatrice si sostituisce al poeta latino nel ruolo di guida attraverso i nove cieli del Paradiso. Giunti nel decimo cielo, l'Empireo, Beatrice torna al suo seggio nella Candida Rosa ed il ruolo di guida, nell'ultimo tratto del viaggio ultraterreno, viene assunto da S. Bernardo di Chiaravalle.
Le scuole
Publio Virgilio Marone nacque il 15 ottobre del 70 a. C. ad Andes, un piccolo villaggio nei pressi di Mantova, da una oscura famiglia di coltivatori.La sua formazione ebbe inizio a Cremona, dove frequentò la scuola di grammatica, e dove, a quindici anni, prese la toga virile.Da Cremona si trasferì a Milano e poi nuovamente a Roma, alla scuola del retore Epidio, esponente dell'indirizzo asiano, così chiamato perchè di moda in Grecia, uno stile oratorio ricco e brillante, in netto contrasto con lo stile semplice degli oratori classici. Epidio, inoltre, annoverava tra i suoi discepoli i giovani che sarebbero diventati gli elementi di spicco della futura classe dirigente di Roma, fra cui Marco Antonio e Ottaviano.Virgilio, tuttavia, schivo per natura, non aveva talento oratorio, nè intendeva perseguire la carriera forense. Abbandonò così la retorica per dedicarsi agli studi filosofici, e in particolare all'Epicureismo, che approfondì a Napoli alla scuola di Sirone.Qui divenne intimo amico di Vario Rufo e Plozio Tucca, che saranno poi i curatori della prima edizione dell'Eneide.

La perdita delle terre
Dopo la morte di Cesare, fra il 44 ed i primi mesi del 43, Virgilio fece ritorno ad Andes, dove ritrovò l'amico della sua giovinezza, Asinio Pollione, che ricopriva l'incarico di distribuire le terre ai veterani.Grazie a lui, uomo sensibile alle arti ed alla cultura, il poeta potè in un primo tempo sottrarre le sue terre all'esproprio, tuttavia, un anno più tardi, mentre era impegnato nella composizione delle Bucoliche, i suoi campi di Mantova furono assegnati ai soldati di Ottaviano, per i quali si era rivelato insufficiente il territorio di Cremona.Virgilio non dimenticò mai il dolore causato dalla perdita della sua terra, per la quale sentì sempre una viva nostalgia.

Il trasferimento a RomaPerdute le sue terre nel mantovano, Virgilio si trasferì a Roma, dove pubblicò le Bucoliche, composte dal 42 al 39 a.C.. L'anno successivo entrò a far parte del circolo letterario di Mecenate.Catullo e Lucrezio erano morti da poco e soltanto la poesia alessandrina, coltivata da Cornelio Gallo, conservava ancora un certo splendore, mentre Orazio, che Virgilio stesso presentò a Mecenate, iniziava allora a scrivere le satire.Mecenate ed Ottaviano, il suo referente politico, offrirono a Virgilio una casa a Roma, nel quartiere dell'Esquilino, ma il poeta spesso preferiva ritirarsi a sud verso il mare ed il sole, mentre si dedicava alla composizione delle Georgiche, compiuta in sette anni, durante un soggiorno a Napoli, fra il 37 ed il 30.Le Georgiche diedero a Virgilio la fama e suscitarono l'ammirazione di Mecenate, che gli era stato particolarmente vicino nelle varie fasi della composizione.

L'Eneide
Nell'estate del 29 Ottaviano, tornato dall'Asia dopo la vittoria conseguita ad Azio su Antonio e Cleopatra, si era fermato ad Atella per riprendersi da un mal di gola. Là Virgilio gli lesse per quattro giorni di seguito i libri compiuti delle Georgiche, aiutato da Mecenate, che lo sostituiva nella lettura quando era stanco.Dopo questo episodio, certo non senza un suggerimento da parte dello stesso Augusto, Virgilio fu scelto quale cantore del nuovo impero e del nuovo principe.

Da questo momento fino alla fine della vita Virgilio attese all'Eneide, un poema epico sulle origini di Roma. Virgilio aveva nella tradizione letteraria latina predecessori illustri nell'ambito di questo genere letterario, ma l'Eneide si richiamava più da vicino al modello omerico.Il poema era stato inizialmente concepito come una narrazione allegorica delle imprese di Ottaviano, ma il poeta cambiò idea ed il poema storico venne sostituito dal poema epico sulle vicende di Enea, progenitore dei Romani.

Ancora tre anni dopo l'inizio della stesura dell'Eneide, Virgilio scriveva ad Augusto che il poema era solo "incominciato" e ci vollero ancora tre anni perchè la prima redazione dell'Eneide fosse terminata.Nel 22 Virgilio lesse all'imperatore alcuni canti del poema, ma non si trattava ancora della stesura definitiva.

Il viaggio in Asia
Nel 19 a.C. Virgilio partì per un lungo viaggio attraverso la Grecia e l'Asia allo scopo di arricchire la propria cultura e, nello stesso tempo, verificare la topografia dei luoghi descritti nel poema.Ad Atene il poeta incontrò Augusto, di ritorno dalle province orientali. Questi, notate le sue precarie condizioni di salute, lo persuase a tornare in Italia. Virgilio, che aveva appena visitato Megara sotto un sole cocente, era estenuato ed il suo stato si aggravò durante la traversata verso le coste italiane.Sbarcato a Brindisi, il poeta era in fin di vita, ma prima di morire chiese il manoscritto dell'Eneide, ancora incompiuta, per bruciarlo. Gli amici non gli ubbidirono.Era il 22 settembre del 19 a.C.. Il corpo di Virgilio fu trasferito a Napoli e sepolto sulla via di Pozzuoli. Suoi eredi furono Augusto e Mecenate, che diede incarico a Vario e Tucca di pubblicare l'Eneide.

Virgilio e DanteL'incontro di Dante con Virgilio, all'uscita dalla "selva oscura" così come la sua elezione a guida nel viaggio attraverso l'Inferno e lungo le sette cornici del Purgatorio "non ha soltanto un significato simbolico, nel contesto religioso e morale del poema, ma anche un preciso avvertimento letterario, preceduto ed accompagnato dal ripudio di un altro poeta, Ovidio, e della poesia d'amore, in un più ampio ed ambizioso progetto di rinascenza culturale" (G. Petrocchi, Il I canto dell'Inferno, in Nuove letture dantesche, 1966).

"Tu se' lo mio maestro" (Inf. I, 85) gli dice Dante, in cui "magister" ha un significato più ampio del modello di bello scrivere, per diventare maestro di vita morale, colui che, pur non avendo avuto la rivelazione della fede, ha tenuta alta la lampada per far luce a quanti vengono dopo di lui.

Pg. XXII, 67-69Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte.

Virgilio rappresenta, così, quell'umana virtù che costituisce il primo gradino del processo di ascesi dell'anima che, partendo dalla ragione, giunge ad una fede consapevole.
"Tu se' ... 'l mio autore" (Inf. I, 85) dice ancora Dante. Virgilio è l'"auctor", il precedente imprescindibile, il modello sicuro, la memoria, insieme personale e storica, colui che testimonia e conferma a Dante, con l'Eneide, la natura provvidenziale ed universale dell'Impero Romano, che prepara ed accompagna la redenzione spirituale operata da Cristo.Nel Convivio il poeta aveva, infatti, asserito che "'autore' ... si prende per ogni persona degna d'essere creduta e obedita" (Convivio IV, vi, 5).

Il rinnovato incontro con Virgilio, che pure aveva già segnato profondamente gli anni della formazione, segna, per Dante, il passaggio dalla giovinezza spirituale e poetica alla piena maturità stilistica ed interiore.Proprio grazie a questo passaggio Dante potrà parlare ancora di Beatrice, l'altro evento fondamentale nella sua vita, e finalmente nel modo degno che si augurava alla fine della giovanile Vita Nuova.

30 mars 2006

Nous ne vivons que de contradictions et pour des contradictions, la vie est tragédie et lutte perpétuelle sans victoire et sans espoir...


Pont de Waterloo Temps Gris, Claude Monet, 1900.




Face aux ruines brûlantes de Carthage, prise et incendiée après trois ans de siège en -146, Scipion Emilien,Publius Cornelius Scipio Æmilianus Africanus minor"fondit en larmes, laissant voir qu'il pleurait sur l'ennemi. Puis il médita longuement en lui-même, ayant pris conscience qu'il faut qu'une puissance divine fasse traverser aux cités, aux peuples et aux royaumes, tous autant qu'ils sont, des mutations comparables à celles que connaissent les simples particuliers, et que tel fut le sort d'Ilion (..) tel aussi celui des Assyriens, des Mèdes et des Perses (...) et tel celui des Macédoniens (...). Tournant les yeux vers l'historien Polybe, il dit, soit à dessein, soit que ces vers {de l'Iliade, NB} lui eussent échappé :
Un jour viendra où la sainte Ilion aura vécu
EtPriam, et les guerriers de Priam à la bonne lance de frêne.
"Et comme Polybe l'interrogeait sans ambages (...) il ne se retint pas de prononcer clairement le nom de sa patrie pour laquelle, eu égard aux vicissitudes de la condition humaine, il éprouvait sans doute des craintes". Cette page d'Appien (95-165), qui arrive peu après la description saisissante des chars romains écrasant sous leurs roues dans les rues de la rivale vaincue hommes, femmes et enfants carthaginois, m'émeut étrangement. Et peu me chaut ce qu'il doit à Polybe (dont le texte est à peu près perdu...) ou en quoi il diffère de Diodore, Appien, qui écrit sous les Antonins, au temps de la plus grande puissance romaine alors présumée éternelle, Appien, donc, me montre le Romain victorieux voyant au-delà de l'évidence, l'évidence du triomphe définitif sur la cité rivale et de l'inéluctable hégémonie de Rome sur le monde connu -- ce que voit Scipion Emilien, c'est la mort de ce qui naît en ce jour sur le sol africain.

Cette Carthage qu'il fallait détruire, selon le vœu obsessionnel du vieux Caton, et qui le fut avec une impitoyable efficacité, qu'en reste-t-il pour nous ? Le cliché d'Hannibal traversant les Alpes avec ses éléphants ? La somptueuse et surchargée, à l'outré décor oriental, Salammbô de Flaubert ? Le film baroque et grandiose de Giovanni Pastrone Cabiria (1914) dont les flamboyants intertitres sont de Gabriele d'Annunzio, et qui est, juste avant Birth of a nation et Intolerance de Griffith, le premier vrai chef d'œuvre du cinématographe ? Mais de la réelle Carthage, dont il ne demeure que quelques vestiges archéologiques, vides de sens sans contexte écrit, et quelques inscriptions, et surtout une histoire tout entière narrée par ses ennemis, que peut-on savoir ?

29 mars 2006

Richtiges Auffassen einer Sache und Missverstehen der gleichen Sache schliessen einander nicht aus. ( Franz Kafka)


Le Bonheur de Vivre, Henri-Émile-Benoit Matisse, 1905.




Franz Kafka wurde am 3. Juli 1883 in Prag geboren, dort verbrachte er auch den größten Teil seines kurzen Lebens.Der 19 jährige Student Kafka scherzt seinem Schulfreund und Kommilitonen Oskar Pollak gegenüber: "Prag läßt nicht los. Uns beide nicht. Dieses Mütterchen hat Krallen. Da muß man sich fügen, oder: an zwei Seiten müßten wir es anzünden, am Vysehrat und am Hradschin, dann wäre es möglich, daß wir loskommen. Vielleicht überlegst Du es Dir bis zum Karneval."Franz Kafka führte nach Abschluß seines Jurastudiums ein denkbar trostloses Dasein als mittlerer Angestellte und Junggeselle, der noch bei seinen Eltern wohnte. Innerhalb der Familie galt der skrupelhafte, introvertierte Schriftsteller als Außenseiter, besonders der Vater brachte nicht das geringste Verständnis für die Interessen seines Sohnes auf. Kafka arbeitete auch deshalb vorwiegend in den Nachtstunden, weil er dann endlich seine Ruhe hatte, die Eltern und Geschwister lagen im Bette, sie lernten oder plauderten nicht mehr, und er konnte sich in das winters beheitzte Wohnzimmer setzen.Ein Prosatext aus dem Jahre 1912 ("Großer Lärm") beginnt folgendermaßen: "Ich sitze in meinem Zimmer im Hauptquartier des Lärms der ganzen Wohnung."
Tagsüber saß er sechs Stunden in seinem Bureau im vierten Stock der Arbeiter-Unfall-Versicherungs-Anstalt, klassifizierte Unfallverletzungen, verfaßte irgendwelche Gutachten über die Sicherheit an Arbeitsplätzen und verfolgte den Sekundenzeiger der Wanduhr. Nachmitags legte er sich für ein paar Stunden ins Bett, ruderte, bestellte einen kleinen Garten oder unternahm ausgedehnte Spaziergänge durch die Parkanlagen und Straßen der Stadt, um spät abends beziehungsweise nachts für seine eigentliche Passion gerüstet zu sein: Franz Kafka verstand sich in einem ausschließlichen Sinne als Schriftsteller, sein äußeres Dasein war zielstrebig auf das Schreiben hin ausgerichtet, nur beim Schreiben konnte er sich auf eine zutiefst befriedigende Weise ausleben, alle sonstigen Interessen ordente er dieser Tätigkeit unter, alles, was ihn am Schreiben hinderte oder auch nur hätte hindern können, empfand er als Bedrohung - und sobald er für kurze Zeit einmal nichts zu Papier gebracht hatte, wurde er depressiv.In einem späteren Brief an Max Brod bekennt er: "Das Schreiben ist ein süßer wunderbarer Lohn, aber wofür? In der Nacht war es mir mit der Deutlichkeit kindlichen Anschauungsunterrichtes klar, daß es der Lohn für Teufelsdienst ist. Dieses Hinabgehen zu den dunklen Mächten,diese Entfesselung von Natur aus gebundener Geister, fragwürdige Umarmungen und was alles noch unten vor sich gehen mag, von dem man oben nichts mehr weiß, wen man im Sonnenlicht Geschichten schreibt. Vielleicht gibt es auch anderes Schreiben, ich kenne nur dieses: in der Nacht, wenn mich die Angst nicht schlafen läßt, kenne ich nur dieses."(03. Juli 1922 ) Auch seine Vorbehalte einer Ehe gegenüber rührten zum Teil aus der Furcht, sich auf das Schreiben nicht mehr konzentrieren zu können. Kafka war ein Literatur-Besessener - allerdings aus persönlicher innerer Not heraus.Franz Kafka zog sich im Laufe der Jahre zunehmend in die Literatur zurück. Man könnte sogar sagen: Aus dem engen bürgerlichen Dasein (als eine Metamorphose des Grauens verzerrt nachgestaltet in seiner berühmtesten Erzählung "Die Verwandlung", 1915) wich er ins Schreiben aus.Im Jahre 1922 gab er wegen seiner sich verschlechternden Gesundheit seine Arbeit als Versicherungsjurist auf. Nach einer kurzen Zeit in Berlin kehrte er im März 1924 nach Prag zurück und erlag dort noch in demselben Jahr einer Kehlkopftuberkulose.

Διογένης Λαέρτιος / Diogenês Laertios


Diogenês Laertios, Giovan Battista Langetti, 1650.






Diogène, fils du banquier Ikésios, naquit à Sinope. Il s’enfuit, raconte Dioclès, quand son père, qui tenait la banque publique, fabriqua de la fausse monnaie. Eubulide, dans son livre sur Diogène, accuse de ce crime notre philosophe, et dit qu’il s’enfuit avec son père. Quoi qu’il en soit, Diogène lui-même s’accuse dans le Pordalos d’avoir falsifié la monnaie. Quelques auteurs racontent qu’étant inspecteur de la monnaie, il reçut d’ouvriers le conseil d’aller à Delphes ou à Délos, patrie d’Apollon, pour demander ce qu’il devait faire. L’oracle lui permit de faire la monnaie de l’État. Ayant mal interprété la réponse, il falsifia la monnaie, et, pris sur le fait, il fut condamné à l’exil, disent les uns, il s’enfuit par crainte d’un châtiment, disent les autres. On croit encore qu’il falsifia de l’argent que son père lui avait donné, que son père, jeté en prison, y mourut, et que lui-même, condamné à l’exil, s’en vint à Delphes, non pas pour savoir s’il pouvait falsifier la monnaie, mais pour savoir de quelle façon il pouvait devenir illustre, à quoi l’oracle lui répondit. Venu à Athènes, il s’attacha à Antisthène. Celui-ci le chassa parce qu’il ne voulait pas de disciples, mais il ne put rien contre la ténacité de Diogène. Un jour où il le menaçait d’un bâton, notre philosophe tendit sa tête et lui dit : « Frappe, tu n’auras jamais un bâton assez dur pour me chasser, tant que tu parleras ! » Il devint donc son auditeur et vécut très simplement, comme il convenait à un homme exilé.
Ayant vu un jour une souris qui courait sans se soucier de trouver un gîte, sans crainte de l’obscurité, et sans aucun désir de tout ce qui rend la vie agréable, il la prit pour modèle et trouva le remède à son dénuement. Il fit d’abord doubler son manteau, pour sa commodité, et pour y dormir la nuit enveloppé, puis il prit une besace, pour y mettre ses vivres, et résolut de manger, dormir et parler en n’importe quel lieu. Aussi disait-il, en montrant le portique de Zeus et le Pompéion, que les Athéniens les avaient construits à son intention, pour qu’il pût y vivre. Étant tombé malade, il s’appuyait sur un bâton. Par la suite, il le porta partout, à la ville et sur les routes, ainsi que sa besace . Il avait écrit à un ami de lui indiquer une petite maison ; comme l’ami tardait à lui répondre, il prit pour demeure un tonneau vide qu’il trouva au Métroon . Il le raconte lui-même dans ses lettres. L’été il se roulait dans le sable brûlant, l’hiver il embrassait les statues couvertes de neige, trouvant partout matière à s’endurcir.
Il était étrangement méprisant, nommait l’école d’Euclide école de bile, et l’enseignement de Platon perte de temps . Il appelait les concours en l’honneur de Dionysos de grands miracles de fous, et les orateurs les valets du peuple. Quand il regardait les pilotes, les médecins, et les philosophes, il pensait que l’homme était le plus intelligent de tous les animaux ; en revanche s’il regardait les interprètes des songes, les devins et leur cour, et tous les gens infatués de gloire et de richesse, alors il ne savait rien de plus fou que l’homme. Il répétait aussi sans cesse qu’il fallait aborder la vie avec un esprit sain ou se pendre.
Voyant un jour Platon, invité à un riche banquet, ne manger que des olives : « Comment, lui dit-il, toi Platon, l’homme sage qui es venu en Sicile en bateau, poussé par le désir de tables richement servies, quand elles sont là sous ton nez, tu n’en profites pas ? » Platon lui répondit : « Mais voyons, Diogène, c’est pour manger des olives et des mets semblables que je suis venu en Sicile. » Diogène alors de répliquer : « Quelle sottise de venir à Syracuse et de passer la mer, quand l’Attique produit elle aussi des olives ! » Ce discours est attribué à Aristippe par Phavorinos (Mélanges historiques). Un jour qu’il mangeait des figues sèches, Diogène rencontra encore Platon et lui dit : « Tu peux en prendre. » Platon en prit donc et les mangea, sur quoi Diogène lui fit observer : « Je t’ai dit d’en prendre, non d’en manger. » Un jour où Platon, au retour de chez Denys, avait invité des amis, Diogène, qui marchait sur les tapis, dit : « Je foule aux pieds l’orgueil de Platon. » Platon répliqua « Comme tu montres malgré toi ton orgueil, Diogène, toi qui prétends n’en pas avoir ! » D’autres auteurs veulent qu’à la phrase de Diogène, Platon ait répondu : « Avec ton propre orgueil, Diogène ! » Sotion (liv. IV) raconte en ces termes un entretien entre Platon et le philosophe cynique : Diogène avait demandé à Platon un peu de vin et des figues sèches. Platon lui donna une bouteille pleine, et Diogène lui dit : « Quand on te demande combien font deux et deux, réponds-tu vingt ? tu ne donnes pas ce que l’on te demande, et tu ne réponds pas à la question posée », et là-dessus il le traita de bavard.
On lui demandait en quel endroit de la Grèce il avait vu des hommes de bien : « Des hommes, dit-il, je n’en ai vu nulle part, mais j’ai vu des enfants à Lacédémone. » Un jour où il parlait sérieusement et n’était pas écouté, il se mit à gazouiller comme un oiseau, et il eut foule autour de lui. Il injuria alors les badauds, en leur disant qu’ils venaient vite écouter des sottises, mais que, pour les choses sérieuses, ils ne se pressaient guère. Il disait encore que les hommes se battaient pour secouer la poussière et frapper du pied, mais non pour devenir vertueux. Il s’étonnait de voir les grammairiens tant étudier les moeurs d’Ulysse, et négliger les leurs, de voir les musiciens si bien accorder leur lyre, et oublier d’accorder leur âme, de voir les mathématiciens étudier le soleil et la lune, et oublier ce qu’ils ont sous les pieds, de voir les orateurs pleins de zèle pour bien dire, mais jamais pressés de bien faire, de voir les avares blâmer l’argent, et pourtant l’aimer comme des fous. Il reprenait ceux qui louent les gens vertueux parce qu’ils méprisent les richesses, et qui dans le même temps envient les riches. Il était indigné de voir des hommes faire des sacrifices pour conserver la santé, et en même temps se gaver de nourriture pendant ces sacrifices, sans aucun souci de leur santé. Par contre, il admirait les esclaves de ne pas prendre de mets pour eux quand leurs maîtres étaient si goinfres. Il louait ceux qui devaient se marier et ne se mariaient point, ceux qui devaient aller sur mer, et n’y allaient point, ceux qui devaient gouverner et ne gouvernaient point, ceux qui devaient élever des enfants et n’en élevaient point, ceux qui se préparaient à fréquenter les puissants et ne les fréquentaient point. Il disait qu’il fallait tendre la main à ses amis, sans fermer les doigts.
Ménippe, dans son livre intitulé la Vertu de Diogène, raconte qu’il fut fait prisonnier et vendu, et qu’on lui demanda ce qu’il savait faire. Il répondit : « Commander », et cria au héraut : « Demande donc qui veut acheter un maître. » On lui défendit de s’asseoir : « Qu’importe, dit-il, on achète bien les poissons couchés sur le ventre ! » Une autre chose encore l’étonnait : « Quand nous achetons une marmite ou un vase, nous frappons dessus pour en connaître le son ; s’agit-il d’un homme, nous nous contentons de le regarder. » Il dit à Xéniade, qui venait de l’acheter, qu’il devrait lui obéir bien que Diogène fût son esclave, car s’il avait pour esclave un médecin ou un pilote, il lui obéirait. Eubule (Vente de Diogène) dit qu’il éleva très bien les enfants de Xéniade, et qu’après leur avoir appris toutes les sciences, il leur montra encore à monter à cheval, tendre l’arc, lancer la fronde et jeter le javelot. A la palestre, il interdisait au pédotribe de les exercer pour en faire des athlètes, il voulait simplement qu’ils prennent de la force et une bonne santé. Ces enfants apprirent aussi de nombreux passages des poètes, des prosateurs et même des écrits de Diogène, qui leur présentait pour chaque science des résumés et des abrégés pour les leur faire retenir plus aisément. A la maison, il leur apprenait à se servir eux-mêmes, à se contenter de mets très simples et à ne boire que de l’eau. Il leur faisait couper les cheveux ras, les forçait à ne mettre que des vêtements simples, les emmenait avec lui sans tunique ni souliers, leur imposait silence et les forçait à ne regarder en chemin que lui-même. Il les menait aussi à la chasse. De leur côté, ces enfants avaient grand soin de Diogène, et faisaient de lui des éloges à leurs parents. Le même auteur nous apprend qu’il resta chez Xéniade jusqu’à sa vieillesse, qu’il y mourut, et fut enterré par les enfants de son maître. Le jour où Xéniade lui demanda comment il voulait être enterré, il répondit : « sur le visage », et comme l’autre s’étonnait, il expliqua : « parce que bientôt ce qui est en bas sera en haut ». On croit qu’il faisait allusion aux Macédoniens, dont le pouvoir, d’abord faible, commençait à grandir.
Un jour, un homme le fit entrer dans une maison richement meublée, et lui dit : « Surtout ne crache pas par terre. » Diogène, qui avait envie de cracher, lui lança son crachat au visage, en lui criant que c’était le seul endroit sale qu’il eût trouvé et où il pût le faire. On attribue parfois le mot à Aristippe. Un jour, il cria : « Holà ! des hommes ! » On s’attroupa, mais il chassa tout le monde à coups de bâton, en disant : « J’ai demandé des hommes, pas des déchets ! ». On cite ce mot d’Alexandre : « Si je n’étais Alexandre, je voudrais être Diogène ! » Les hommes dans le besoin n’étaient pas, à l’en croire, les sourds et les aveugles, mais ceux qui n’avaient pas de besace. Il entra un jour, à demi rasé, dans un banquet de jeunes gens, et reçut des coups; il inscrivit alors sur un tableau blanc les noms de ceux qui l’avaient frappé, et se promena par les rues, en le tenant devant soi, tout nu, jusqu’à ce qu’il leur eût rendu leurs outrages, en les exposant aux reproches et aux coups de la foule. Il disait être un des chiens les plus loués, et pourtant aucun de ceux qui faisaient son éloge n’osait l’emmener à la chasse. Quelqu’un lui dit : « Je battrai des hommes aux jeux Pythiques », et Diogène répondit : « Non, les hommes, c’est moi qui les bats. » On lui disait : « Tu es vieux, repose-toi », mais il répondait : « Si je faisais la course de fond dans le stade, devrais-je ralentir près du but, ou plutôt foncer vers lui de toutes mes forces ? » Convié à un festin, il refusa d’y assister, sous prétexte que la veille on ne le lui avait pas offert. Il marchait nu-pieds sur la neige, et supportait toutes sortes d’épreuves comme je l’ai dit plus haut. Il essaya même de manger de la viande crue, mais ne persista pas dans cette tentative.
Il rencontra une fois l’orateur Démosthène, qui déjeunait dans une auberge, et comme celui-ci cherchait à se cacher, Diogène lui dit qu’en le faisant il s’enfonçait davantage dans l’auberge. Il le montra du doigt à des étrangers qui voulaient le voir, en disant : « Voilà le conducteur du peuple athénien. »
Un homme avait laissé tomber son pain et n’osait pas le ramasser. Diogène voulut lui donner une leçon. Il attacha une bouteille par le goulot, et la traîna derrière lui dans le quartier du Céramique. Il prétendait imiter les maîtres de musique qui chantent un ton plus haut pour que les choristes parviennent à donner le ton juste. Les hommes, disait-il, montrent leur folie par leur doigt : qui tend le médius passe pour un fou, qui tend l’index, au contraire. Il remarquait avec étonnement que les choses les plus précieuses se vendent le moins cher et inversement. Ainsi on paie trois mille drachmes pour une statue, et pour deux sous on a de la farine. Il conseilla à Xéniade, qui l’acheta, de lui obéir, et comme l’autre répondait :
Les fleuves alors remontent vers leur source ?
Diogène répliqua : « Si tu avais acheté un médecin et que tu fusses malade, tu lui obéirais sans dire que les fleuves remontent vers leur source ».
Quelqu’un voulait étudier la philosophie avec lui. Diogène l’invita à le suivre par les rues en traînant un hareng. L’homme eut honte, jeta le hareng et s’en alla, sur quoi Diogène, le rencontrant peu après, lui dit en riant : « Un hareng a rompu notre amitié. » Dioclès raconte la scène d’une autre façon : un homme dit à Diogène : « Prescris-moi quelque chose. », Le philosophe prit un morceau de fromage et le lui donna à porter. L’homme refusa, et Diogène lui dit : « Un morceau de fromage a rompu notre amitié. »
Voyant un jour un petit garçon qui buvait dans sa main, il prit l’écuelle qu’il avait dans sa besace, et la jeta en disant : « Je suis battu, cet enfant vit plus simplement que moi. » Il jeta de même une autre fois son assiette pour avoir vu de la même façon un jeune garçon qui avait cassé la sienne faire un trou dans son pain pour y mettre ses lentilles.
Il tenait des raisonnements comme celui-ci : « Tout appartient aux dieux, or les sages sont les amis des dieux et entre amis tout est commun, donc tout appartient aux sages. » Voyant un jour une femme prosternée devant les dieux et qui montrait ainsi son derrière, il voulut la débarrasser de sa superstition. Il s’approcha d’elle et lui dit: « Ne crains-tu pas, ô femme, que le dieu ne soit par hasard derrière toi (car tout est plein de sa présence) et que tu ne lui montres ainsi un spectacle très indécent ? » Il posta un gladiateur près de l’Asclépéion avec mission de bien battre tous ceux qui viendraient se prosterner bouche contre terre. Il avait coutume de dire que les imprécations des poètes tragiques étaient retombées sur lui puisqu’il était
Sans ville, sans maison, sans patrie,
Gueux, vagabond, vivant au jour le jour.
Il affirmait opposer à la fortune son assurance, à la loi sa nature, à la douleur sa raison. Dans le Cranéion, à une heure où il faisait soleil, Alexandre le rencontrant lui dit : « Demande-moi ce que tu veux, tu l’auras. » Il lui répondit : « Ote-toi de mon soleil ! » Un homme qui faisait une longue lecture, parvenu enfin au bout de son rouleau, montrait qu’il n’y avait plus rien d’écrit sur la page. « Courage, dit Diogène, je vois la terre. » Un autre lui démontrait par syllogisme qu’il avait des cornes, il se toucha le front et dit : « Je n’en vois pas. » Un autre jour où quelqu’un niait le mouvement, il se leva et se mit à marcher. Un philosophe parlait des choses célestes. « Depuis quand es-tu donc arrivé du ciel ? » lui demanda Diogène. Un méchant eunuque écrivait sur sa maison : « Qu’aucun méchant n’entre ici ! » « Mais, demanda Diogène, le maître de la maison, par où entrera-t-il ? » Il se frottait les pieds de parfum, disant que le parfum qu’on se met sur la tête monte au ciel ; si l’on veut qu’il vous vienne au nez, il faut donc se le mettre aux pieds. Les Athéniens voulurent l’initier aux mystères, et lui assuraient que les initiés avaient aux enfers les places d’honneur. Il leur dit : « Ce serait une plaisante chose qu’Agésilas et Épaminondas fussent là-bas dans le bourbier, et que le premier venu, s’il est initié, fût dans les îles des bienheureux! »
Comme des souris couraient sur sa table, il dit : « Diogène lui aussi nourrit des parasites. » Platon l’appela chien. « Le nom me va bien, dit-il, car je suis revenu à ceux qui m’ont vendu. » Un jour où il sortait du bain, quelqu’un lui demanda s’il y avait vu beaucoup d’hommes ; il répondit : non, mais à un autre qui lui demandait s’il y avait foule, il répondit oui. Platon ayant défini l’homme un animal à deux pieds sans plumes, et l’auditoire l’ayant approuvé, Diogène apporta dans son école un coq plumé, et dit : « Voilà l’homme selon Platon. » Aussi Platon ajouta-t-il à sa définition : « et qui a des ongles plats et larges ».
On lui demanda un jour à quelle heure il fallait manger : « Quand on est riche, répondit-il, on mange quand on veut, quand on est pauvre on mange quand on peut. » Voyant à Mégare des moutons portant toute leur laine et des enfants allant tout nus, il s’écria : « Il vaut mieux à Mégare être un bélier qu’un enfant. » Un jour un passant lui cria « Gare ! », mais quand il l’avait déjà heurté d’une poutre qu’il portait, et Diogène de lui dire : « Tu veux donc m’en donner un second coup ? » Les orateurs lui paraissaient les valets du peuple, et les couronnes des boutons donnés par cette fièvre : la gloire. Il se promenait en plein jour avec une lanterne et répétait : « Je cherche un homme. » Il était un jour trempé jusqu’aux os par la pluie, et comme on le prenait en pitié, Platon intervint et dit aux badauds : « Si vous avez vraiment pitié de lui, allez-vous-en » ; il soulignait par là l’orgueil de Diogène. Une autre fois, il reçut un coup de poing. « Par Hercule, s’écria-t-il, je ne me serais jamais douté qu’il me fallût avoir toujours la tête protégée d’un casque ! » Midias le roua de coups et lui cria : « Il y a trois mille drachmes pour toi chez mon banquier. » Diogène prit le lendemain un gantelet de pugiliste, lui rendit ses coups, et lui dit : « Tu as toi aussi tes trois mille drachmes chez mon banquier.» Lysias l’apothicaire lui demandait s’il croyait à l’existence des dieux. « Comment n’y croirais-je pas, dit-il, quand je te vois, toi le plus grand ennemi des dieux ?» On attribue parfois le mot à Théodore. Il vit une fois un homme qui se purifiait à grande eau, et il lui dit : « Malheureux, toute cette eau ne réussirait même pas à laver tes fautes de grammaire, et tu t’imagines pouvoir laver toutes les fautes que tu as commises pendant ta vie ! » Il reprochait aux hommes leurs prières, parce qu’ils demandaient des biens apparents et non des biens réels. A ceux que les songes effrayaient, il disait : « Vous ne vous souciez pas de ce que vous voyez pendant la veille, pourquoi vous inquiéter des choses imaginaires qui vous apparaissent dans le sommeil ? » Aux jeux olympiques, le héraut ayant proclamé : « Dioxippe a vaincu les hommes », Diogène répondit : « Il n’a vaincu que des esclaves ; les hommes, c’est mon affaire. »
Les Athéniens l’aimaient beaucoup. Ils fessèrent un jeune homme qui avait brisé son tonneau, et remplacèrent le tonneau. Denys le stoïcien raconte que, fait prisonnier à Chéronée, il fut conduit auprès de Philippe. Le roi lui demanda qui il était et Diogène répondit : « Je suis l’espion de ton avidité. » Philippe en fut tout éberlué et lui rendit la liberté. Alexandre ayant envoyé une lettre à Antipatros, à Athènes, par l’intermédiaire d’un messager qui s’appelait Piteux, Diogène, qui se trouvait là à son arrivée, dit :
Piteux, tu viens piteusement à un piteux de la part d’un piteux.
Perdicax le menaça de le faire mourir s’il ne se décidait pas à venir le voir. Il répondit : « Ce n’est pas fort ; un scarabée, une tarentule en feraient autant. Que ne m’as-tu fait cette menace : même sans toi, je puis vivre heureux ! » Il criait souvent et à tous les échos que les dieux ont donné à l’homme une vie facile, mais qu’elle ne consiste pas à rechercher les boissons fines, les parfums, et les autres jouissances de ce genre. Aussi, voyant un jour un homme qui se faisait chausser par son esclave, lui dit-il : « Tu n’es pas encore heureux, si tu ne te fais pas moucher aussi ; cela viendra, quand tu seras devenu manchot. » Ayant vu un autre jour des gardiens des archives sacrées emmener en prison un homme qui avait volé une coupe au trésor, il dit : « Voilà de grands voleurs qui en emmènent un petit. »
La vue d’un enfant qui jetait des pierres contre un gibet lui fit dire : « Courage, tu finiras par atteindre le but ! » Des jeunes gens qui l’entouraient disaient : « Prenons garde qu’il ne nous morde ! » — « Ne craignez rien, garçons, leur dit-il, un chien ne mange pas de bettes. » Quelqu’un se glorifiait d’avoir sur le dos une peau de lion. « Cesse donc, lui dit-il, de déshonorer la couverture de la vertu. » Quelqu’un trouvait Callisthène heureux d’être reçu par Alexandre avec munificence. « Non, dit Diogène, il faut le plaindre, car il ne déjeune et ne dîne que quand il plaît à Alexandre. » Quand il avait besoin d’argent et qu’il s’adressait à ses amis, il ne leur demandait pas de lui en donner, mais de lui en rendre.
Un jour où il se masturbait sur la place publique, il s’écria : « Plût au ciel qu’il suffît aussi de se frotter le ventre pour ne plus avoir faim ! » Voyant un jeune homme qui s’en allait déjeuner avec des satrapes, il l’en empêcha, le tira à part, le ramena chez ses parents et leur conseilla de le surveiller. A un autre garçon qui s’était fardé et qui lui posait une question, il déclara qu’il lui répondrait seulement quand il se serait mis tout nu, et qu’il pourrait voir si son interlocuteur était un homme ou une femme. Il dit à un autre qui au bain jouait au cottabe : « Mieux tu feras, pis ce sera. » Pendant un repas, on lui jeta des os comme à un chien ; alors, s’approchant des convives, il leur pissa dessus comme un chien. Aux orateurs et à tous ceux qui avaient quelque réputation d’éloquence, il donnait le nom de trois fois hommes, c’est-à-dire de trois fois malheureux. Un riche ignorant était pour lui un mouton à toison d’or. Voyant sur la maison d’un libertin l’écriteau : « A vendre », « Je savais bien, dit-il, que tu étais à vendre, et tu vomirais facilement ton maître, ô maison, tant tu as l’estomac lourd d’ivrognerie. » Un garçon se plaignait à lui de recevoir des propositions de trop de gens, il lui dit : « Tais-toi donc, et ne montre pas partout les indices de tes désirs impurs. » Étant entré dans un bain malpropre, il demanda : « Ceux qui se sont baignés ici, où se lavent-ils ? »
Il louait un fort gaillard, joueur de cithare, dont tout le monde se gaussait, et comme on lui en demandait la raison, il la donna : « C’est parce que, fort comme il est, il joue de la cithare, et ne songe pas à faire le brigand. » Un autre faisait toujours fuir son auditoire, et Diogène quand il le rencontrait lui disait : « Bonjour, coq. » L’autre lui demanda pourquoi il l’appelait ainsi. « C’est que ton chant éveille tout le monde ! » Un jour où un jeune garçon s’exhibait devant la foule, il vint se mettre en face de lui, après avoir rempli sa tunique de fèves, et il se mit à les manger. La foule laissa le jeune homme et fit cercle autour de Diogène, qui s’étonna alors de la voir abandonner l’homme qui s’exhibait. Un homme superstitieux lui dit une fois « Je te casserais la tête d’un seul coup. » « Et moi, lui dit Diogène, il me suffira d’éternuer à gauche pour te faire trembler. » Hégésias lui demanda de lui donner un de ses livres. Diogène lui dit : «Tu es fou, Hégésias, toi qui prends les vraies figues et non pas les figues peintes, de laisser l’exercice vivant pour l’exercice écrit ! » On lui reprochait son exil. « C’est grâce à lui, dit Diogène, que je suis devenu philosophe. » Et comme un autre à son tour lui disait : « Les gens de Sinope t’ont chassé de chez eux », il répondit : « Moi, je les condamne à rester chez eux. » Il vit un jour un berger vainqueur aux jeux olympiques. « Mon brave, lui dit-il, tu vas maintenant quitter les jeux olympiques pour les jeux néméens. » On lui demandait pourquoi les athlètes sont insensibles : « Parce qu’ils sont gavés de viande de boeuf et de cochon. » Il demanda un jour qu’on lui élevât une statue, et quand on lui demanda pourquoi il avait fait une telle demande, il répondit que c’était pour avoir le plaisir de se la voir refuser. Tombé un jour dans le dénuement, il demanda l’aumône pour la première fois, et il dit : « Si tu donnes aux autres, donne-moi aussi, et si tu ne donnes pas aux autres, commence par moi. » Un tyran lui demandait quel était le meilleur bronze pour faire une statue ; il répondit que c’était celui dans lequel on avait fondu la statue d’Harmodios et d’Aristogiton, les tyrannicides. On lui demandait comment Denys traitait ses amis : « Il en use, dit-il, comme il use des bouteilles, quand elles sont pleines, il les caresse ; quand elles sont vides, il les jette. » Un jeune marié avait écrit sur sa porte :
Le fils de Zeus, Hercule aux belles victoires,
Vit céans, qu’il n’y entre aucun mal.
Diogène ajouta : « Après la guerre vient l’alliance. »
Il prétendait que l’amour de l’argent était la citadelle de tous les maux. Voyant un libertin manger des olives dans une auberge, il lui dit : « Si tu n’avais mangé que des olives à ton déjeuner, ce dîner ne te suffirait pas ! »
Selon lui les gens de bien étaient des images des dieux et l’amour une occupation d’oisifs. On lui demandait ce qui était pénible dans la vie : « Vieillir sans ressources » ; quelle bête avait la morsure la plus terrible « Chez les bêtes sauvages c’est le sycophante, chez les animaux domestiques c’est le flatteur. » Voyant deux centaures mal peints, il demanda lequel des deux était le Pire. Un discours flatteur était pour lui un lacet enduit de miel. Il appelait le ventre la Charybde de la vie. Il entendit dire un jour que le joueur de flûte Testicule avait été convaincu d’adultère. « Il mérite d’être pendu par son nom », dit-il. On lui demandait pourquoi l’or était pâle : « C’est parce que beaucoup de gens lui en veulent », répondit-il. Voyant passer une femme en litière, il s’écria : « Ce n’est pas là la cage qu’il faut à cette bête. » Un esclave fugitif était assis sur la margelle d’un puits : « Jeune homme, lui dit-il, prends garde d’y tomber! » Voyant au bain un enfant qui avait volé un vêtement, il lui demanda s’il était venu pour se faire frotter ou pour voler un autre manteau. Voyant des femmes pendues à des oliviers, il fit cette remarque : « Plût au ciel que tous les arbres eussent de tels fruits ! » Il dit à un détrousseur d’habits :
Que cherches-tu, mon brave, voudrais-tu dépouiller les morts ?
On lui demandait s’il avait valet et servante, il répondit non. « Mais si tu meurs, lui dit-on, qui t’enterrera ? » — « Celui qui aura envie de ma maison » dit-il. Passant auprès d’un beau garçon qui dormait sans prendre garde, il lui dit :
Éveille-toi,
Pour ne pas recevoir, pendant ton sommeil, un coup de lance dans [le derrière !
Il dit à un autre qui préparait un riche dîner : « Tu mourras jeune, mon fils, si tu achètes tant de choses. » Platon, parlant des idées, nommait l’idée de table et l’idée de tasse. « Pour moi, Platon, dit Diogène, je vois bien la tasse et la table, mais je ne vois pas du tout l’idée de table ni l’idée de tasse. » « Bien sûr, répliqua Platon, car pour voir la table et la tasse tu as les yeux, mais pour voir les idées qui leur correspondent, il te faudrait plus d’esprit que tu n’en as. » (Quand on demandait à Platon ce qu’il pensait de Diogène, il répondait : « C’est un Socrate devenu fou. ») On demandait à Diogène à quel âge il faut prendre femme, il répondait : « Quand on est jeune, il est trop tôt, quand on est vieux il est trop tard. » On lui demandait encore : « Que faire, quand on a reçu une gifle ? » Prendre un casque », disait-il. Il dit à un jeune garçon qui s’était fardé : « Si c’est pour aller voir des hommes, tu es un pauvre homme, si c’est pour aller voir des femmes, tu es un infâme. » Il dit à un jeune homme qui rougissait : « Bravo, c’est la couleur de la vertu. » Ayant entendu discuter deux plaideurs, il les condamna tous les deux, l’un pour avoir volé ce que l’autre réclamait, l’autre pour réclamer quelque chose qu’on ne lui avait pas volé. On lui demandait un jour quel était son vin préféré, il répondit : « Celui des autres. » Un autre lui dit : « Tout le monde se moque de toi. » « Cela ne me touche pas, » dit-il.
Quelqu’un lui disait : « Vivre est un mal. » « Non, dit-il, mais mal vivre. » On lui conseillait de rechercher son esclave qui s’était enfui. « Ce serait une plaisante chose, dit-il, que Manès pût vivre sans Diogène, et que Diogène ne pût pas vivre sans Manès. » Un jour où il mangeait des olives, on lui offrit des gâteaux, il les jeta en disant :
O mon hôte, chasse de ma route les tyrans
et encore :
Il le fouetta pour le faire courir.
On lui demandait quelle sorte de chien il était. « Quand j’ai faim, je suis un pauvre roquet de Mélita ; quand j’ai mangé, je suis un gros Molosse, et que l’on n’ose pas emmener avec soi à la chasse, tant on a de peine à le tenir. » Il ajoutait : « Ainsi, vous ne pouvez pas vivre avec moi, car vous craignez les coups de dents. » On lui demandait si les sages mangeaient du gâteau. « Ils mangent de tout comme le reste des hommes », dit-il. On lui demandait encore pourquoi on donnait aux mendiants et non aux philosophes, il répondit : « Parce qu’on estime qu’on pourra devenir soi-même boiteux ou aveugle, mais on sait bien qu’on ne deviendra jamais philosophe. » Il dit à un avare à qui il demandait l’aumône, et qui tardait à le satisfaire : « Donne-moi de la nourriture et non pas une sépulture. »
A qui lui reprochait un jour d’avoir fait de la fausse monnaie, il dit : « Il fut en effet un temps où je vous ressemblais, mais vous ne serez jamais ce que je suis maintenant. » A un autre qui lui faisait le même reproche, il répondit : « Il fut un temps où j’étais prompt à convoiter, ce temps n’est plus. » Il alla un jour à Myndes et s’étonna de voir une si petite ville fermée par de si grandes portes, et il dit : « Gens de Myndes, fermez bien les portes, que votre ville ne se sauve pas ! » Il vit prendre sur le fait un voleur qui venait de dérober une étoffe pourpre, et récita :
Il a succombé à un destin pourpre et à une dure Destinée.
Cratère l’avait invité à venir le voir. « Je préfère, lui dit-il, lécher du sel à Athènes, à venir m’asseoir à l’opulente table de Cratère. ». Rencontrant l’orateur Anaximène, qui était obèse, il lui dit : « Donne-moi ton ventre, tu seras allégé d’autant, et tu me rendras service, car je suis gueux. » Une fois où cet orateur faisait un discours, il sortit un hareng saur et attira à lui tout l’auditoire, et comme l’orateur s’indignait, « Voilà qu’un hareng saur d’un sou a coupé les effets d’Anaximène », dit Diogène. On lui reprochait un jour d’avoir mangé en pleine place. « N’ai-je pas eu faim sur la place ? » répliqua-t-il.
On lui attribue parfois aussi le mot que j’ai cité plus haut et que voici. Platon, qui le vit laver de la salade, s’approcha et lui dit doucement : « Si tu avais été aimable pour Denys, tu ne laverais pas de la salade », sur quoi Diogène lui répondit sur le même ton « Et toi, si tu avais lavé ta salade, tu n’aurais pas été l’esclave de Deny. »
Quelqu’un lui disait : « Tout le monde se moque de toi. » Il répondit : « Et peut-être aussi les ânes se moquent-ils de ces gens-là, mais ils ne font pas attention aux ânes, et moi je ne fais pas attention à eux. » Ayant entendu un beau garçon s’entretenir de philosophie, il le loua de vouloir transformer en amants de son esprit les amants de son corps. Quelqu’un s’étonnait de voir tant d’ex-voto à Samothrace. « Il y en aurait bien davantage, dit Diogène, si ceux qui n’ont pas été exaucés en avaient aussi consacré. » Cette réponse est quelquefois attribuée à Diogoras de Mélos. Il dit à un jeune garçon qui s’en allait à un festin : « Tu en reviendras Pire », et comme le lendemain l’autre lui disait : « Me voilà et je n’en suis pas pire », il lui répondit : « Tu n’es pas Pire, mais tu es Plus large. »
Il demandait l’aumône à un homme morose, qui lui dit : « Je te donnerai si tu me persuades », à quoi Diogène répondit : « Si je pouvais le faire, je te persuaderais plutôt d’aller te pendre. »
Au retour à Athènes d’un voyage à Sparte, on lui demanda où il allait et d’où il venait, il répondit : « Je reviens de chez des hommes, et j’arrive chez des femme. » A son retour des jeux olympiques, on lui demanda s’il y avait foule : « Oui, dit-il, mais les hommes étaient rares».
Il disait des débauchés qu’ils étaient semblables aux figuiers qui poussent au bord des précipices, l’homme ne peut en goûter le fruit, ils sont mangés par les corbeaux et les vautours. La courtisane Phryné avait consacré une statue d’or à Aphrodite, Diogène y mit cette inscription : « En souvenir de l’incontinence des Grecs. » Alexandre le rencontrant un jour lui dit : « Je suis le grand roi Alexandre. » Diogène alors se présenta : « Et moi je suis Diogène, le chien. » On lui demanda pourquoi il était appelé chien : « Parce que je caresse ceux qui me donnent, j’aboie contre ceux qui ne me donnent pas, et je mors ceux qui sont méchants. » Il cueillait des fruits à un figuier, le gardien lui dit : « Hier, on y a pendu un homme. » « Je le purifie donc », dit Diogène.
Un vainqueur olympique n’avait d’yeux que pour une courtisane. « Voyez donc ce bélier d’Arès, dit Diogène, mené en laisse par la première catin venue. » Il comparait les belles filles de joie à de l’hydromel empoisonné. Quand il mangeait sur la place publique, les passants le traitaient toujours de chien. « Vous êtes les chiens, répondait-il, puisque vous faites cercle autour de moi pendant que je mange. » Comme deux débauchés s’enfuyaient à son approche : « N’ayez pas peur, leur cria-t-il, le chien ne mange pas de bettes. » On lui demandait de quel pays était un jeune garçon dont on avait abusé : « Il est de Tégée », dit-il. Voyant un lutteur peu courageux qui faisait de la médecine, il lui demanda s’il cherchait les moyens de faire mourir ceux qui l’avaient vaincu. Voyant le fils d’une catin jeter des pierres à la foule : « Fais attention, lui dit-il, tu pourrais blesser ton père. » Un jeune garçon lui montrait une épée que son amant lui avait donnée : « L’épée est belle, dit-il, mais la garde est laide».
On louait un homme qui avait fait un présent à Diogène : « Et moi qui ai mérité de le recevoir, vous ne me louez pas ? » Un homme lui réclamait son manteau : « Si tu me l’as donné, dit-il, il est à moi et si tu me l’as prêté, je m’en sers. » On le soupçonnait de cacher de l’or sous son manteau : « C’est bien pourquoi je le mets sous moi pour dormir », répondit Diogène. On lui demandait quel profit il avait retiré de la philosophie, il répondit : « A tout le moins, celui d’être capable de supporter tous les malheurs. » Quand on lui demandait sa patrie, il disait : « Je suis citoyen du monde. » Il vit des gens faire un sacrifice pour avoir un enfant, et il s’étonna de ne pas les voir faire de sacrifice pour savoir de quelle nature serait leur enfant. Invité à un banquet, il dit au président du festin qui lui demandait son écot :
Dépouille les autres, mais éloigne tes mains d’Hector.
Il déclarait que les courtisanes étaient les reines des rois, puisque les rois obéissaient à leurs moindres désirs. Les Athéniens ayant par décret nommé Alexandre Dionysos, il demanda à être nommé Sérapis. Quand on lui reprochait de fréquenter les maisons closes, il disait : « Le soleil va bien dans les latrines, et pourtant il ne s’y souille pas ! » Déjeunant dans un temple, il vit sur la table des pains de mauvaise qualité. Il les jeta en disant que dans un temple, il ne devait rien y avoir de mauvaise qualité.
Quelqu’un lui dit : « Tu ne sais rien, et tu fais le philosophe. » « Mais, dit-il, simuler la sagesse, c’est encore être philosophe. » Un homme lui amena un jour son enfant, et le présenta comme très intelligent et d’excellentes moeurs. « Il n’a donc pas besoin de moi, répondit-il. » Il comparait les gens qui parlent du bien mais ne le font pas aux cithares qui n’entendent pas et sont insensibles. Il entrait au théâtre par la porte de sortie, et comme on s’en étonnait, il déclarait : « Je m’efforce de faire dans ma vie le contraire de tout le monde. » Il dit à un jeune homme efféminé : « N’as-tu pas honte de vouloir devenir pire que la nature ne t’a fait : elle a fait de toi un homme, et tu t’efforces de devenir une femme. » Un sot essayait d’accorder un instrument, il lui dit : « N’as-tu pas honte d’accorder des cordes sur un morceau de bois et d’oublier de mettre ton âme en accord avec ta vie ? » Quelqu’un lui dit : « Je ne suis pas fait pour la philosophie ». Diogène lui répondit : « Pourquoi vis-tu, si tu ne cherches pas à bien vivre ? » Il dit encore à un jeune homme qui méprisait son père : « N’as-tu pas honte de mépriser celui grâce à qui tu as le pouvoir de mépriser ? » Voyant un beau garçon qui bavardait à tort et à travers, il lui dit : « N’as-tu pas honte de tirer d’une gaine d’ivoire un glaive de plomb ? » On lui reprocha un jour d’aller boire au cabaret : « Je vais bien chez le barbier pour me faire tondre », dit-il. On lui faisait reproche d’avoir accepté un manteau d’Antipatros, il répondit par ce vers :
Quand un dieu nous fait un présent, prenons-le.
Un homme l’avait heurté d’une poutre et lui criait seulement après : « Gare ! » Diogène lui donna un coup de bâton, et cria : « Gare! » Voyant un homme serrer de près une courtisane : « Pourquoi veux-tu obtenir, malheureux, dit-il, ce qu’il vaut mieux ne pas avoir ? » A un homme parfumé il dit : « Prends garde que la bonne odeur de ta tête ne fasse ressortir la mauvaise odeur de ta vie. » Il disait que les serviteurs étaient esclaves de leurs maîtres, et les gens sans valeur de leurs passions. On lui demandait d’où venait le nom d’Andrapode donné aux esclaves. Il répondit : « De ce qu’ils ont des pieds d’homme, et l’esprit semblable au tien, qui m’interroges. » Il demandait une mine à un prodigue, et comme celui-ci voulait savoir pourquoi il lui demandait tant, quand il ne demandait aux autres qu’une obole : « C’est, dit-il, que j’espère bien que les autres me donneront plusieurs fois, tandis que pour toi, les dieux seuls savent si je pourrai encore recevoir de l’argent de toi. » On lui reprochait de mendier, quand Platon ne mendiait pas. « Mais il le fait aussi, dit-il, seulement,
C’est à l’oreille, pour que les autres ne l’entendent pas. »
Voyant un archer malhabile, il s’assit tout à côté du but, afin, dit-il, d’être sûr de ne rien recevoir. Il disait que les amoureux n’atteignent jamais le bonheur. On lui demandait si la mort était un mal : « Comment peut-elle être un mal, dit-il, puisque nous ne la sentons pas quand elle est arrivée» Alexandre lui demanda s’il le craignait : « Es-tu bon ou méchant ? » dit-il. « Je suis bon, dit l’autre. » — « Qui donc, dit alors Diogène, craindra un homme bon ? » Il conseillait d’enseigner aux enfants la sobriété, aux vieillards la résignation, aux pauvres la richesse, aux riches le luxe. Le débauché Testicule soignait l’oeil de sa pupille. « Prends garde, lui dit-il, en voulant soigner l’oeil, de ne corrompre la pupille. » Quelqu’un se plaignait que ses amis lui voulussent du mal. « Où allons-nous, dit-il, s’il faut se méfier de ses amis comme de ses ennemis ! » On lui demandait ce qu’il y avait de plus beau au monde : « La franchise », dit-il. Entré dans une école où il voyait beaucoup de Muses et peu de disciples : « En comptant les dieux, dit-il au maître, tu as beaucoup d’élèves. » Il avait coutume de tout faire en public, les repas et l’amour, et il raisonnait ainsi : « S’il n’y a pas de mal à manger, il n’y en a pas non plus à manger en public ; or il n’y a pas de mal à manger, donc il n’y a pas de mal à manger en public. » De même il se masturbait toujours en public, en disant « Plût au ciel qu’il suffît également de se frotter le ventre pour apaiser sa faim. » On rapporte bien d’autres choses sur lui, qu’il serait trop long de raconter en détail.
Il y avait selon lui deux sortes d’exercices, ceux de l’âme et ceux du corps. Le propre des exercices physiques étant de donner des spectacles susceptibles d’acheminer plus sûrement vers la vertu : chacune des deux sortes étant sans l’autre impuissante, la bonne santé et la force n’étant pas moins utiles que le reste, puisque ce qui concerne le corps concerne l’âme aussi. Il produisait des arguments pour montrer de quelle utilité sont pour l’acquisition de la vertu les exercices du corps. « Ne voyait-on pas, disait-il, dans les arts mécaniques et autres, les artisans obtenir par l’exercice l’habileté qui leur manquait, et les joueurs de flûte et les athlètes faire d’autant plus de progrès qu’ils s’exerçaient davantage, chacun dans leur métier, et que si ces gens font participer leur esprit à cet exercice, ce n’est ni inutilement, ni sans résultat qu’ils se sont donné de la peine ? » Il concluait donc qu’on ne peut rien faire de bien dans la vie sans exercice, et que l’exercice permet aux hommes de se surpasser. Quand il songeait qu’en laissant de côté toutes les peines futiles que nous nous donnons, et en nous exerçant conformément à la nature, nous pourrions et devrions vivre heureux, il regrettait de voir l’homme si malheureux par sa folie. Le mépris même du plaisir nous donnerait, si nous nous y exercions, beaucoup de satisfaction. Si ceux qui ont pris l’habitude de vivre dans les plaisirs souffrent quand il leur faut changer de vie, ceux qui se sont exercés à supporter les choses pénibles méprisent sans peine les plaisirs.
Il ne se contentait pas de parler de la sorte, il payait d’exemple, transformant les moeurs comme les monnaies, et sacrifia les lois à la nature. Il prétendait vivre comme Hercule et mettait la liberté au-dessus de tout, disait que tout appartenait aux sages, et appuyait ses opinions sur des raisonnements semblables à ceux que j’ai exposés plus haut : « Tout appartient aux dieux ; les dieux sont les amis des sages, tout est commun entre amis, donc tout appartient aux sages. » Il parlait encore de la loi, disant qu’on ne peut gouverner sans elle. « Sans cité organisée, la ville ne sert à rien ; donc la ville doit être une cité. Sans la cité, la loi ne sert à rien : donc la loi doit être liée à la cité. » Il se moquait de la noblesse et de la gloire, simples voiles de la perversité. La seule vraie constitution est celle qui régit l’univers.
Il voulait la communauté des femmes ; niait la valeur du mariage, préconisait l’union libre au gré de chacun et selon les penchants de chacun. Pour cette raison, il voulait aussi la communauté des enfants.
Il ne voyait pas qu’il fût mal d’emporter les objets d’un temple, ou de manger la chair de n’importe quel animal, et ne trouva pas si odieux le fait de manger de la chair humaine, comme le, font des peuples étrangers, disant qu’en saine raison, tout est dans tout et partout.
Il y a de la chair dans le pain et du pain dans les herbes ; ces corps et tant d’autres entrent dans tous les corps par des conduits cachés, et s’évaporent ensemble, comme il le montre dans sa pièce intitulée Thyeste, si toutefois les tragédies qu’on lui attribue sont de lui, et non pas de son ami Philiscos d’Égine ou de Pasiphon, fils de Lucien, dont Phavorinos (Mélanges historiques) nous dit qu’il les écrivit après la mort de Diogène. Diogène méprisait encore la musique, la géométrie, l’astrologie et les autres sciences de ce genre, et il déclarait qu’elles n’étaient ni nécessaires ni utiles.
Il avait l’art de trouver la réponse décisive aux objections, comme on peut le voir par les anecdotes que j’ai citées. Il supporta dignement ses épreuves quand on le vendit comme esclave. Naviguant un jour vers Égine, et pris par des pirates dont le chef était Scirpalos, il fut en effet conduit en Crète et vendu sur le marché. Quand le héraut lui demanda ce qu’il savait faire, il répondit : « Commander. » Puis, montrant du doigt un Corinthien richement vêtu, ce Xéniade dont j’ai parlé, il dit : « Vends-moi à cet homme, je vois qu’il a besoin d’un maître. » Xéniade l’acheta, le ramena à Corinthe, lui confia l’éducation de ses enfants, et le nomma intendant de sa maison, et Diogène mit de l’ordre partout, si bien que Xéniade s’en allait répétant : « Il est entré un bon génie dans ma maison. »
Cléomène, dans son livre intitulé De l’Educateur, raconte que ses amis voulurent le racheter, mais Diogène les traita de sots et leur dit : « Les lions ne sont pas esclaves de ceux qui les nourrissent, ce sont ceux-ci leurs esclaves ; un esclave a peur, la bête sauvage fait peur ! »
Très persuasif, il s’attachait sans peine les gens par ses discours. En voici une preuve : un certain Onésicrite d’Égine avait deux fils. Il en envoya un, Androsthène, à la ville d’Athènes. Ce jeune homme alla écouter Diogène, et ne le quitta plus. Onésicrite envoya alors le second fils, Philiscos, que j’ai déjà nommé, et qui était l’aîné, pour chercher et ramener à Égine le cadet. Mais il fut séduit par Diogène tout comme son frère et ne revint pas. Onésicrite vint alors lui-même ; mais il fit comme ses fils et resta avec eux pour philosopher auprès de Diogène. Notre philosophe eut encore pour disciples Phocion, surnommé le Bon, et Stilpon de Mégare, et beaucoup d’autres hommes politiques.
On rapporte qu’il mourut à près de quatre-vingt-dix ans, mais tout le monde n’est pas d’accord sur la façon dont il mourut. Les uns veulent que pour avoir mangé tout cru un poulpe il soit mort du choléra, les autres, et parmi eux Kercide de Mégalopolis, qu’il se soit volontairement asphyxié en retenant sa respiration. Ce dernier auteur le dit en vers :
Il n’est plus, l’homme de Sinope,
L’homme au bâton, au double manteau, qui mangeait en plein air ;
Il est monté au ciel pour avoir de ses dents
Mordu ses lèvres et retenu son souffle. C’était,
Ce Diogène, un vrai fils de Zeus et un chien céleste.
D’autres auteurs racontent encore que, voulant arracher aux chiens un morceau de poulpe, il fut mordu au pied et en mourut. Les amis de Diogène toutefois croient à la tradition de la respiration retenue. Car il vivait au Cranion, gymnase situé aux portes de Corinthe, et quand, à leur habitude, ses amis vinrent le voir, ils le trouvèrent enveloppé dans son manteau. Ils crurent d’abord qu’il dormait, puis, le sachant peu enclin au sommeil, ils soulevèrent le manteau et trouvèrent le philosophe inanimé et sans souffle. Ils pensèrent qu’il l’avait retenu volontairement par désir de la mort. Alors ils se disputèrent pour savoir qui l’enterrerait, et peu s’en fallut qu’ils n’en vinssent aux coups. La discorde fut apaisée par l’arrivée de leurs parents et des gens influents de la ville, qui firent enterrer Diogène près de la porte qui conduit à l’Isthme. Ils dressèrent sur sa tombe une colonne, surmontée d’un chien de marbre de Paros. Plus tard ses compatriotes lui érigèrent une statue de bronze avec cette inscription :
Le temps ronge le bronze, mais
Ta gloire, Diogène, sera éternelle,
Car seul tu as montré aux hommes à se suffire à eux-mêmes,
Et tu as indiqué le plus court chemin du bonheur.
J’ai, pour ma part, écrit ces vers procéleusmatiques :
Dis-moi, Diogène, quelle mort t’a conduit
Aux Enfers ? ce fut la sauvage morsure d’un chien.
Quelques auteurs veulent qu’il ait demandé qu’on laissât son corps sans sépulture, pour que les chiens pussent y prendre leur morceau, et qu’au moins, si on tenait à le mettre en fosse, on le recouvrît seulement d’un peu de poussière. D’autres disent qu’il voulait être jeté dans l’Ilissos, pour être utile à ses frères. Démétrios (Homonymes) dit que Diogène mourut à Corinthe, le jour où Alexandre mourait à Babylone. Il était déjà un vieillard pendant la cent treizième olympiade.
On lui attribue les ouvrages suivants : des dialogues, parmi lesquels : Céphalion, Ichtas, le Geai, Pordalos, le Peuple d’Athènes, la Constitution, Traité de morale, de la Richesse, Art d’aimer, Théodore, Hypsias, Aristarque, de la Mort ; des Lettres ; et sept tragédies : Hélène, Thyeste, Héraclès, Achille, Médée, Chrysippe, Œdipe. Sosicrate (Successions, liv. I) et Satyros (Vies, liv. IV) disent qu’aucun de ces ouvrages n’est de Diogène. Les tragédies, selon Satyros, sont de Philiscos d’Égine. Sotion (liv. VII) affirme que seuls sont de Diogène les livres sur la Vertu, sur le Bien, sur l’Art d’aimer, sur la Mendicité, sur l’Audace, le Pordalos, Cassandre, Céphalion, Philiscon, Aristarque, Sisyphe, Ganymède, de l’Usage et les Lettres.
Il y eut cinq Diogène : un physicien d’Apollonie, qui écrivit un livre commençant ainsi : « Quiconque entreprend un ouvrage doit, ce me semble, commencer par poser des principes indiscutables », un historien de Sicyone auteur d’un livre sur le Péloponnèse, notre philosophe, un Stoïcien de la race de Séleucos, et qui fut appelé le Babylonien, parce qu’il était né près de ce pays, un écrivain de Tarse qui s’est efforcé de résoudre des problèmes poétiques. De ce dernier Athénodore dit (Promenades, liv. VIII) qu’il était philosophe et paraissait toujours luisant parce qu’il se frottait d’huile.

The mind is its own place and in itself, can make a Heaven of Hell, a Hell of Heaven. (John Milton)

Arearea, Heugène-Henri Paul Gauguin, 1892.


I

ERe-while of Musick, and Ethereal mirth,
Wherwith the stage of Ayr and Earth did ring,
And joyous news of heav'nly Infants birth,
My muse with Angels did divide to sing;
But headlong joy is ever on the wing,
In Wintry solstice like the shortn'd light
Soon swallow'd up in dark and long out-living night.

II

For now to sorrow must I tune my song,
And set my Harpe to notes of saddest wo,
Which on our dearest Lord did sease er'e long,
Dangers, and snares, and wrongs, and worse then so,
Which he for us did freely undergo
Most perfect Heroe, try'd in heaviest plight
Of labours huge and hard, too hard for human wight.

III

He sov'ran Priest stooping his regall head
That dropt with odorous oil down his fair eyes,
Poor fleshly Tabernacle entered,
His starry front low-rooft beneath the skies;
O what a Mask was there, what a disguise!
Yet more; the stroke of death he must abide,
Then lies him meekly down fast by his Brethrens side.

IV

These latter scenes confine my roving vers,
To this Horizon is my Phœbus bound,
His Godlike acts, and his temptations fierce,
And former sufferings other where are found;
Loud o're the rest Cremona's Trump doth sound;
Me softer airs befit, and softer strings
Of Lute, or Viol still, more apt for mournful things.

V

Befriend me night best Patroness of grief,
Over the Pole thy thickest mantle throw,
And work my flatter'd fancy to belief,
That Heav'n and Earth are colour'd with my wo;
My sorrows are too dark for day to know:
The leaves should all be black wheron I write,
And letters where my tears have washt a wannish white.

VI

See see the Chariot, and those rushing wheels,
That whirl'd the Prophet up at Chebar flood,
My spirit some transporting Cherub feels,
To bear me where the Towers of Salem stood,
Once glorious Towers, now sunk in guiltless blood;
There doth my soul in holy vision sit
In pensive trance, and anguish, and ecstatick fit.

VII

Mine eye hath found that sad Sepulchral rock
That was the Casket of Heav'ns richest store,
And here though grief my feeble hands up-lock,
Yet on the softned Quarry would I score
My plaining vers as lively as before;
For sure so well instructed are my tears,
That they would fitly fall in order'd Characters.

VIII

Or should I thence hurried on viewles wing,
Take up a weeping on the Mountains wilde,
The gentle neighbourhood of grove and spring
Would soon unboosom all thir Echoes milde,
And I (for grief is easily beguild)
Might think th' infection of my sorrows loud,
Had got a race of mourners on som pregnant cloud.
The Passion, John Milton.

Better to reign in hell than serve in heav'n.

The Fall of the Rebel Angels, Peter Breughel the Elder, 1562.





One of the greatest poets of the English language, best-known for his epic poem PARADISE LOST (1667). Milton's powerful, rhetoric prose and the eloquence of his poetry had an immense influence especially on the 18th-century verse. Besides poems, Milton published pamphlets defending civil and religious rights.

"Of Man's first disobedience, and the fruit Of that forbidden tree whose mortal taste Brought death into the world, and all our woe, With loss of Eden." (from Paradise Lost)

John Milton was born in London. His mother, Sarah Jeffrey, a very religious person, was the daughter of a merchant sailor. Milton's father, also named John, had risen to prosperity as a scrivener or law writer - he also composed music. The family was wealthy enough to afford a second house in the country. Milton's first teachers were his father, from whom he inherited love for art and music, and the writer Thomas Young, a graduate of St Andrews University. At the age of twelve Milton was admitted to St Paul's School near his home and five years later he entered Christ's College, Cambridge. During this period, while considering himself destined for the ministry, he began to write poetry in Latin, Italian, and English. One of Milton'e earliest works, 'On the Death of a Fair Infant' (1626), was written after his sister Anne Phillips has suffered from a miscarriage.

Milton did not adjust to university life. He was called, half in scorn, "The Lady of Christ's", and after starting a fist fight with his tutor, he was expelled for a term. On leaving Cambridge Milton had given up his original plan to become a priest. He adopted no profession but spent six years at leisure in his father's home, writing during that time L'ALLEGRO, IL PENSEROSO (1632), COMUS (1634), and LYCIDAS (1637), written after the death of his friend Edward King. In 1635 the Miltons moved to Horton, Buckinghamshire, where John pursued his studies in Greek, Latin, and Italian. He traveled in France and Italy in the late 1630s, meeting in Paris the jurist and theologian Hugo Grotius and the astronomer Galileo Galilei in Florence - there are references to Galileo's telescope in Paradise Lost. His conversation with the scientist Milton recorded in his celebrated plea for a free speech and free discussion, AREOPAGITICA (1644), in which he stated that books "preserve as in a vial the purest efficacy and extraction of that living intellect bred in them." Milton returned to London in 1639, and set up a school with his nephews and a few others as pupils. During this period he did not write much, earlier he had planned to write an epic based on the Arthurian legends. The Civil War silenced his poetic work for 20 years. War divided the country as Oliver Cromwell fought against the king, Charles I.

Concerned with the Puritan cause, Milton wrote a series of pamphlets against episcopacy (1642), on divorce (1643), in defense of the liberty of the press (1644), and in support of the regicides (1649). He also served as the secretary for foreign languages in Cromwell's government. After the death of Charles I, Milton published THE TENURE OF KINGS AND MAGISTRATES (1649) supporting the view that the people had the right to depose and punish tyrants.

In 1651 Milton became blind, but like Jorge Luis Borges centuries later, blindness helped him to stimulate his verbal richness. "He sacrificed his sight, and then he remembered his first desire, that of being a poet," Borges wrote in one of his lectures. One of his assistants was the poet and satirist Andew Marvell (1621-78), who spoke for him in Parliament, when his political opinions arouse much controversy. After the Restoration of Charles II in 1660, Milton was arrested as a noted defender of the Commonwealth, but was soon released. Milton paid a massive fine for his opposition. Besides public burning of EIKONKLASTES (1649) and the first DEFENSIO (1651) in Paris and Toulouse, Milton escaped from more punishment after Restoration, but he became a relatively poor man. The manuscript of Paradise Lost he sold for £5 to Samuel Simmons, and was promised another £5 if the first edition of 1,300 copies sold out. This was done in 18 months.

Milton was married three times. His first marriage started unhappily; this experiences promted the poet to write his famous essays on divorce. He had married in 1642 Mary Powell, seventeen at that time. She grew soon bored with her busy husbandand went back home where she stayed for three years. Their first child, Anne, was born in 1646. Mary died in 1652 and four years later Milton married Katherine Woodcock; she died in 1658. For her memory Milton devoted the sonnet 'To His Late Wife'. In the 1660s Milton moved with his third wife, Elizabeth Minshull, again a much younger woman, to what is now Bunhill Row. The marriage was happy, in spite of the great difference of their ages. Milton spent in Bunhill Row the remaining years of his life, apart from a brief visit to Chalfont St Giles in 1665 during a period of plague. His late poems Milton dictated to his daughter, nephews, friends, disciples, and paid amanuenses.

In THE DOCTRINE AND DISCIPLINE OF DIVORCE (1643), composed after Mary had deserter him, Milton argued that a true marriage was of mind as well as of body, and that the chaste and modest were more likely to find themselves "chained unnaturally together" in unsuitable unions than those who had in youth lived loosely and enjoyed more varied experience. Though Milton was a Puritan, morally austere and conscientious, some of his religious beliefs were very unconventional, and came in conflict with the official Puritan stand. Milton who did not believe in the divine birth, "believed perhaps nothing", as Ford Madox Ford says in The March of Literature (1938).

Milton died on November 8, 1674. He was buried beside his father in the church of St Giles, Cripplegate. It has been claimed that Milton's grave was desecrated when the church was undergoing repairs. All the teeth and "a large quantity of the hair" were taken as souvenirs by grave robbers.

Milton's achievement in the field of poetry was recognized after the appearance of Paradise Lost. Before it the writer himself had showed some doubt of the worth of his work: "By labor and intent study (which I take to be my portion in this life), joined with the strong propensity of nature, I might perhaps leave something so written to after-times, as they should not willingly let it die." (from The Reason of Church Government, 1641) Milton's cosmic vision has occasionally provoked critical discussion. Even T.S. Eliot has attacked the author and described him as one whose sensuousness had been "withered by book-learning." Eliot claimed that Milton's poetry '"could only be an influence for the worse."

The theme of Fall and expulsion from Eden in Paradise Lost had been in Milton's mind from the 1640s. His ambition was to compose an epic poem to rival the ancient writers, such as Homer and Virgil, whose grand vision in Aeneid left traces in his poem. It was originally issued in 10 books in 1667, and in 12 books in the second edition of 1674. Milton, who wanted to be a great poet, had also cope with the towering figure of Shakespeare, who had died in 1616 - Milton was seven at that time. Milton's first published poem was the sonnet 'An Epitaph on the Admirable Dramatic Poet, W. Shakespeare', which was printed anonymously in the Second Folio of Shakespeare's works (1632). In his own hierarchy, Milton placed highest in the scale the epic, below it was the drama.

Paradise Lost is not easy to read with its odd syntax, difficult vocabulary, and complex, but noble style. Moreover, its cosmic vision is not actually based on the Copernican system, but more in the traditional Christian cosmology of its day, where the Earth (and man) is the center of the universe, not the sun. The poem tells a biblical story of Adam and Eve, with God, and Lucifer (Satan), who is thrown out of Heaven to corrupt humankind. Satan, the most beautiful of the angels, is at his most impressive: he wakes up, on a burning lake in Hell, to find himself surrounded by his stunned followers. He has been defeated in the War of Heaven. "All is not lost; th' unconquerable Will, / And study of revenge, immortal hate, / And courage never to submit or yield... /" Milton created a powerful and sympathetic portrait of Lucifer. His character bears similarities with Shakespeare's hero-villains Iago and Macbeth, whose personal ambition is transformed into metaphysical nihilism.

Milton's view influenced deeply such Romantic poets as William Blake and Percy Bysshe Shelley, who regarded Satan as the real hero of the poem - a rebel against the tyranny of Heaven. The troubled times, in which Milton lived, is also seen on his theme of religious conflict. In The Marriage of Heaven and Hell Blake stated that Milton is "a true Poet, and of the Devil's party without knowing it." Many other works of art have been inspired by Paradise Lost, among them Joseph Haydn's oratorio The Creation, Alexander Pope's The Rape of the Lock and The Dunciad, John Keat's poem Endymion, Lord Byron's The Vision of Judgment, the satanic Sauron in J.R.R. Tolkien's saga The Lord of the Rings. Noteworthy, Nietzsche's Zarathustra has more superficial than real connections with Milton's Lucifer, although Nietzsche knew Milton's work.

Paresse : habitude prise de se reposer avant la fatigue. (Jules Renard)


El Sueño de la razon Produce Monstros, Francisco Goya, 1798.





On sait la fréquence et la gravité de la maladie appelée dépression dans le monde contemporain, on sait avec quelle rapidité, chez les jeunes surtout, elle peut conduire au suicide. On sait d’autre part l’importance que les plus fins psychologues parmi les philosophes, Nietzsche, Scheler, Klages, Thibon ont attaché à la notion de ressentiment: cette vengeance différée accompagnée de tristesse qui incite à dénigrer les plus haute valeurs et à transformer les causes d’admiration en causes de dégoût ou de mépris. Les psychiatres s’intéressent aussi désormais à une nouvelle variante de la dépression: le désarroi.

Voilà autant de raisons de redécouvrir cette morosité voleuse de vie (life-robbing dreariness, comme dit J. Novone), cette tristesse que dans la spiritualité chrétienne classique on appelait l’acedia, laquelle fait partie de la liste des sept péchés capitaux de Saint Grégoire le Grand (c. 540-604).

Le théologien Michel Labourdette regrette que, dans la liste révisée des péchés capitaux, elle ait été remplacée par la notion beaucoup plus faible de paresse. Il voit dans cette substitution le signe d’une chute du plan théologal au plan moral.

On peut dire du ressentiment qu’il est engendré par le dépit de ne pouvoir s’élever jusqu’à l’être ou au principe supérieurs proposés à notre admiration. L’acedia est engendrée par le même dépit mais à propos de Dieu lui-même, source de la force qui permet de s’élever jusqu’à lui. (Vu sous cet angle, le ressentiment apparaît comme l’acedia s’appliquant aux grandes valeurs ayant survécu à la mort de Dieu.)

«Tristesse ou dégoût des choses divines dans nos rapports avec elles», dit Michel Labourdette. «C'est, ajoute-t-il, un vice subtil, de soi grave, mortel, quoique se prêtant spécialement à des mouvements imparfaits qui ne dépassent pas le véniel.»

Voici les principaux passages consacrés à l’acedia dans la Somme théologique de saint Thomas d’Aquin, Question 35:«L'acédie, selon S. Jean Damascène, est "une tristesse accablante" qui produit dans l'esprit de l'homme une dépression telle qu'il n'a plus envie de rien faire, à la manière de ces choses qui, étant acides, sont, de surcroît, froides (et inertes). Et c'est pourquoi l'acédie implique un certain dégoût de l'action. C'est ce que démontre la Glose commentant le Psaume (107, 18): "Ils avaient toute nourriture en horreur." Certains la définissent comme "une torpeur de l'esprit qui ne peut entreprendre le bien". Une telle tristesse est toujours mauvaise, parfois en elle-même, parfois en ses effets. Est mauvaise en elle-même la tristesse qui provient d'un mal apparent et d'un bien véritable; à l'inverse, est mauvaise la délectation d'un bien apparent et d'un mal véritable. Donc, puisque le bien spirituel est un vrai bien, la tristesse qui provient d'un bien spirituel est mauvaise en elle-même. Quant à la tristesse qui provient d'un mal véritable, elle est mauvaise dans ses effets lorsqu'elle accable l'homme au point de l'empêcher totalement de bien agir.
Aussi l'Apôtre (2 Co 2, 7) ne veut-il pas que celui qui fait pénitence "sombre dans une tristesse excessive" à la vue de son péché. Donc, parce que l'acédie, comme nous l'envisageons ici, est une tristesse provenant d'un bien spirituel, elle est doublement mauvaise: en elle-même et dans ses effets. Et c'est pourquoi l'acédie est un péché, car, nous l'avons montré, ce qui est mauvais dans les mouvements de l'appétit est un péché. […]»[...]«S. Grégoire a désigné les filles de l'acédie comme il le fallait. En effet, selon le Philosophe, "personne ne peut rester longtemps sans plaisir, en compagnie de la tristesse". C'est pourquoi la tristesse a nécessairement deux résultats: elle conduit l'homme à s'écarter de ce qui l'attriste; et elle le fait passer à d'autres activités où il trouve son plaisir. De même, ceux qui ne peuvent goûter les joies spirituelles se portent vers les joies corporelles, selon Aristote. Dans ce mouvement de fuite par rapport à la tristesse, se remarque le processus suivant: d'abord, l'homme fuit les choses qui l'attristent; ensuite il combat ce qui lui apporte de la tristesse. Or, les biens spirituels dont l'acédie s'attriste sont la fin et les moyens qui regardent la fin.
On fuit la fin par le désespoir. On fuit les biens ordonnés à la fin, s'il s'agit de biens difficiles appartenant à la voie des conseils, par la pusillanimité; s'il s'agit de biens qui relèvent de la justice commune, on les fuit par la torpeur à l'égard des préceptes. Le combat contre les biens spirituels attristants est parfois mené contre les hommes qui les proposent, et c'est alors la rancune; parfois, le combat s'étend aux biens spirituels eux-mêmes, ce qui conduit à les détester, et c'est alors la malice proprement dite. Enfin, lorsqu'en raison de la tristesse causée par les biens spirituels, on se porte vers les choses extérieures qui procurent du plaisir, la fille de l'acédie est alors l'évasion vers les choses défendues.»

Je m'ennuyais. Voilà comment ça a commencé. Elle m'ennuyait, voilà comment ça a fini


Ashes, Edvard Munch, 1894.




À l'ennui, envisagé comme épreuve de désolation spirituelle permise par Dieu, saint Ignace de Loyola assigne trois raisons principales:
"la première : parce que nous sommes tièdes, paresseux ou négligents dans nos exercices spirituels; c'est alors à cause de nos fautes, que la consolation spirituelle s'est éloignée de nous.
"la seconde : pour éprouver ce que nous valons et jusqu'où nous pouvons aller dans le service de Dieu et sa louange, sans un tel salaire de consolations et d'immenses grâces.
"la troisième : pour nous donner d'apprendre et de connaître en vérité, afin de le sentir intérieurement, qu'il ne dépend pas de nous de faire naître ou de conserver une immense dévotion, un intense amour, des larmes, ni aucune autre consolation spirituelle, mais que tout est don et grâce de Dieu notre Seigneur : et pour que nous n'allions pas faire notre nid chez autrui et nous monter l'esprit jusqu'à l'orgueil et la vaine gloire, en nous attribuant la dévotion ou les autres effets de la consolation spirituelle". (E.S. n. 322)
Saint Jean Climaque pense que l'acédie ou ennui, comme mal de l'âme, est due surtout au relâchement spirituel, à la paresse, à un esprit d'insoumission. Il affirme que "l'homme soumis ne connaît pas ce défaut, les choses sensibles étant pour lui occasion de prospérer dans le domaine spirituel", plutôt que de l'inviter à la tiédeur. L'acédie sera alors une sanction dans l'âme de son manque de générosité. "Aussi, écrit-il, une âme généreuse ranime l'esprit quand il est mort mais l'acédie et la paresse dissipent tout le trésor des vertus".
C'est aussi le sentiment de Jean Mosch, de Thalassius et de saint Jean Damascène qui furent en leur temps de grands maîtres spirituels. Dans la Vie des Pères du désert, on lit ce fait :
" Le monastère de saint Gérasime, situé près du Jourdain, avait pour supérieur du temps de Jean Mosch (+ 619), un abbé de grand mérite nommé Alexandre. Un frère vint trouver l'abbé Alexandre et lui dit : "Abbé, je veux quitter l'endroit où je vis, parce que je souffre beaucoup de l'ennui (acédie)", L'abbé Alexandre lui répondit : "Mon fils, ceci est le signe naturel que tu ne penses ni au royaume des cieux ni au châtiment éternel ; car alors, tu ne souffrirais pas de l'acédie". En d'autres termes, si tu souffres de l'acédie ou ennui spirituel, c'est que ta pensée est toute tournée vers les choses de la terre et que tu oublies tes fins dernières.
Pour Thalassius, l'acédie a comme cause principale la négligence dans l'ordre spirituel, essentiellement reliée à la recherche des plaisirs. Il en va sûrement ainsi pour l'acédie actuelle de beaucoup de chrétiens qui désertent les églises, se détournent de Dieu et de Jésus-Christ et n'ont plus de goût, dit saint Paul, que pour les choses de la terre. On trouve la même doctrine chez saint Jean Damascène dans son traité "De la foi orthodoxe".
On peut donc dire que les causes les plus générales du dégoût spirituel qui conduit aujourd'hui un grand nombre d'âmes à se détourner de Dieu et à chercher leur bonheur dans le plaisir des sens est la diminution, quand ce n'en est pas le mépris complet, des vertus de foi, d'espérance et de charité.
La civilisation matérialiste dans laquelle nous vivons tend à saper les fondements divins de la vie religieuse. Il serait aujourd'hui insensé de croire et d'espérer en un Dieu qu'on ne voit pas ; la sagesse consisterait à construire soi-même son propre bonheur sur la base des biens de ce monde. La désorientation spirituelle des âmes au profit d'un attachement de plus en plus grand aux ressources du monde présent ne peut que les entraîner à sentir de plus en plus l'amertume du vide spirituel dans lequel elles sont plongées. L'absence de Dieu, surtout si elle est la conséquence d'un rejet volontaire, débouche sur l'immense tristesse de l'ennui et du dégoût spirituel.

28 mars 2006

Acedia is not in every dictionary; just in every heart...


Death in the Sickroom, Munch Edvard, 1895.




L'ennui ou dégoût spirituel, qui prive l'âme de la joie de Dieu peut être soit une épreuve, habituellement passagère, soit une maladie spirituelle extrêmement dangereuse. Comme ces deux sortes d'ennui produisent les mêmes effets négatifs dans l'âme, les remèdes à l'un et à l'autre seront substantiellement les mêmes.

A) Comme épreuve, le dégoût des choses spirituelles correspond à ce que les maîtres spirituels appellent la désolation. Lorsqu'il définit la désolation, saint Ignace de Loyola décrit en fait ce qu'est l'épreuve de l'ennui ou acédie dans une âme qui tend à progresser dans l'union avec Dieu. L'âme désolée n'éprouve plus la consolation de Dieu, qui l'enflammait dans l'amour de son Créateur : elle ne sent plus l'allégresse intérieure qui l'appelait et l'attirait aux choses célestes et à son bien propre et qui la remplissait de paix. Au contraire, elle est envahie de ténèbres et de trouble intérieur. Elle se sent attirée vers ce qui est bas et terrestre, inquiète devant les diverses agitations et tentations. Elle est poussée à perdre confiance, à être sans espérance, sans amour. Elle se trouve alors toute paresseuse, tiède, triste et comme séparée de son Créateur et Seigneur. (E.S. nn. 316-317).

"L'épreuve du dégoût des exercices spirituels n'est pas une épreuve légère, affirme saint Augustin; si elle t'afflige, reconnais ta misère et crie vers le Seigneur pour qu'il t'en libère. Et lorsque tu en auras été délivré, chante vite ses miséricordes". Sur l'éventualité et même la nécessité de cette épreuve purificatrice, saint Bernard enseigne à ses disciples : "Sans doute, dans le commencement (de votre combat spirituel contre les affections charnelles) votre coeur sera rempli de tristesse ; mais cette tristesse fera bientôt place à la joie. En effet, vos affections seront purifiées, votre volonté sera renouvelée, ou plutôt il en sera créé une nouvelle en vous, en sorte que tout ce qui vous avait paru difficile, impossible même, vous paraîtra plein de douceur et vous l'embrasserez avec une sorte d'avidité". Ces paroles font écho à celles mêmes que Jésus donnait à ses apôtres après la dernière Cène, une heure avant d'entrer dans son affreuse agonie : "En vérité, en vérité, je vous dis que vous pleurerez et que vous vous lamenterez et le monde se réjouira. Vous serez, vous, attristés, mais votre tristesse se changera en joie" (Jean 16, 20).

Saint Augustin rappelle que dans son agonie, Notre-Seigneur Jésus a été accablé par la tristesse et l'abattement, disant: "Mon âme est triste à en mourir". Et cloué sur la croix, il soupirait: "Mon Dieu, mon Dieu, pourquoi m'as-tu abandonné?"

"Bien que cet abattement, même grave, puisse être ressenti sans aucune faute, remarque-t-il, qu'il y ait toujours en toi la volonté d'agir ou de souffrir conformément à la volonté de Dieu, comme elle était en Jésus. Si tu reçois de la main de Dieu la peine de cette désolation, bientôt tu seras réconforté avec Jésus-Christ par la consolation d'un ange, mieux par celle de Dieu même".

B) Lorsque le dégoût spirituel est un état permanent de l'âme, soit en raison de la négligence à prendre les moyens pour la surmonter, soit en raison de la tiédeur dans laquelle elle s'est laissée tomber, et qui devient une véritable torpeur spirituelle qui la replie sur elle-même, la séparant de plus en plus de Dieu, on se trouve devant une maladie spirituelle extrêmement dangereuse. Car cette maladie engendre, dans l'âme, selon saint Grégoire le Grand, la malice, la rancoeur, la pusillanimité, le désespoir et la recherche des plaisirs illicites. Dans son dégoût de la piété et du culte divin, l'âme en arrive à se détourner de toute pratique religeuse et à n'avoir plus de désir que pour les choses du monde. Elle estime non seulement ne pas avoir besoin de la religion, mais ne comprenant plus rien à la sagesse et à la bonté de Dieu qui fait tourner tous les maux au bien de ceux qui l'aiment, elle devient, comme dit saint Jean Climaque, "une calomniatrice de Dieu qu'elle trouve sans coeur et sans bonté".

La dépression spirituelle ou acédie, comme forme de tristesse et d'ennui en face de tout ce qui est du domaine religieux, agit à la façon d'un cancer qui mine d'abord la vertu d'espérance et par conséquent enlève à l'âme son courage, sa force, son énergie, la jettant dans le découragement ou l'indifférence religieuse. Cette maladie spirituelle, ennemie de la persévérance, explique sans doute un grand nombre de défaillances dans la foi. Étant socialement contagieuse, en raison de la mentalité mondaine dans laquelle elle s'enracine, elle est en très grande part responsable du désintéressement collectif de la religion, qui s'exprime aujourd'hui par la diminution très sensible de la pratique religieuse.
C'est donc une maladie spirituelle actuelle, bien qu'elle soit presqu'inconnue sous son ancienne appellation. Qu'on lui donne aujourd'hui des noms qui correspondent à ses effets, comme la morosité, l'ennui ou le dégoût de la religion, l'oubli de Dieu, elle n'en reste pas moins très dommageable à la santé des âmes.